Giornale di Bordo. La guerra di Kiev: eclissi del sovranismo e nascita del realismo europeo?

In barba alle utopie pacifiste, le truppe sovietiche hanno dilagato oltre i confini dell’Ucraina, col pretesto di castigare i nazisti del posto

Il conflitto russo-ucraino

E così la guerra di Troia ha avuto luogo. Anzi, per l’esattezza, la guerra di Kiev. In barba alle utopie pacifiste, le truppe sovietiche hanno dilagato oltre i confini dell’Ucraina, col pretesto di castigare i nazisti del posto, mettendo a frutto la collaudata tecnica nazista del blitz-krieg.

C’era da prevederlo, ma un Occidente prigioniero dei suoi dogmi pacifisti, in cui il servizio militare è stato di fatto abolito,  col pretesto che non ce n’era più bisogno perché si era arrivati alla fine della storia, fatica a pensare che ci siano persone capaci di scatenare una guerra, non fredda ma sin troppo calda, non alla periferia dell’Impero ma nel cuore d’Europa, non virtuale, come i videogiochi con cui si rimbecilliscono i nostri figli e nipoti, ma reale; e non sanno come reagire, se non con sanzioni che finiscono per favorire la Russia, perché più rincara il gas, più il metano dà una mano all’aggressore. Più si demonizzano quanti oltre ottant’anni fa manifestavano le loro perplessità dinanzi alla prospettiva di morire per Danzica, più ci si rende conto che è difficile far capire a generazioni abituate a pretendere di girare per casa in maglietta a gennaio e andare al supermercato col golfino a ferragosto che bisogna morire per Kiev.

Morire per Kiev

E invece per Kiev rischiamo tutti di morire, sia pure (per ora) solo metaforicamente. Con buona pace di Giraudoux, e degli dèi dell’Olimpo, la guerre de Troye a eu lieu. Putin, il ragazzino bullizzato e a sua volta bullizzante nella San Pietroburgo (all’epoca Leningrado) della sua infanzia, il freddo funzionario del Kgb, il callido erede di Eltsin, ha cominciato a realizzare il suo sogno. Che non è (solo) quello di assicurare frontiere sicure alla Russia, ma di rifondare l’Impero zarista. Un Mussolini con l’atomica – che gli avrebbe potuto assicurare Fermi, se non ci fossero state le leggi razziali,- un Hitler ancora senza paranoie, uno Stalin astemio dinanzi a cui non giganteggia la figura di un Biden, in difficoltà nel tenere sotto controllo i suoi sfinteri anali, figuriamoci l’espansionismo post-sovietico. Un Biden che è riuscito, col suo mix di arroganza e d’impotenza, a demolire quello che era stato nel 1971 il capolavoro in politica estera del più grande presidente degli Stati Uniti del dopoguerra dopo Reagan, Richard Nixon: dividere Unione Sovietica e Cina Popolare attraverso la diplomazia del ping-pong.

L’alleanza di fatto Cina-Russia

Sì, perché il più serio problema derivante dalla conquista dell’Ucraina da parte di Putin non è l’aumento del prezzo del gas e del greggio, che almeno potrebbe indurre noi europei, e soprattutto noi italiani, a rivedere i nostri virtuismi ambientalisti, non è la prevedibile caduta di un governo nato anch’esso a Kiev da un colpo di Stato – una delle tante sciagurate rivoluzioni telematiche promosse dal premio Nobel per la pace Obama, – non è il prevedibile rincaro del prezzo dei cereali, conseguente alla destabilizzazione dell’Ucraina, “granaio d’Europa” fin dall’Ottocento. È l’alleanza di fatto, se non, per il momento, de jure, dei due Stati postcomunisti usciti all’apparenza sconfitti dal 1989, pronti a stringere in una spietata tenaglia eurasiatica gli alleati dell’Occidente; è il rischio che dopo l’Ucraina tocchi a Formosa, con la sua valenza simbolica ma anche con il suo potenziale produttivo di componenti indispensabili all’industria informatica.

Ucraina come la Finlandia

Nel rivendicare il controllo di parte dell’Ucraina, nel sollecitare una finlandizzazione di Kiev, Stato cuscinetto fra la Russia e la Nato, nel chiedere garanzie per le minoranze russe, Putin, sia ben chiaro, poteva avere le sue ragioni; e, come suggeriva l’ambasciatore Romano, l’Occidente avrebbe fatto bene a dargli ascolto. Uno Stato cuscinetto fra Nato e Russia avrebbe avuto una sua logica. Ma le sue ragioni le poteva avere anche Hitler, quando rivendicava Danzica o difendeva le minoranze tedesche nei Sudeti. E poi sappiamo com’è andata a finire. E le loro buone ragioni potevano averle anche Vienna e Berlino dopo l’attentato di Sarajevo; ma se fosse stata raggiunto un adeguato risarcimento l’Europa non avrebbe conosciuto i milioni di morti della grande guerra, la rivoluzione russa, i gulag e i lager, le spartizioni di Yalta e il trauma della decolonizzazione. Dal canto suo, Agamennone aveva le corna, ma non era un buon motivo per porre con un conflitto decennale le premesse per la fine della civiltà micenea.

Funerale del sovranismo, per un nuovo realismo europeo

Per questo fanno bene Salvini e la Meloni a condannare l’aggressione all’Ucraina, a costo di difendere Zelensky, commediante divenuto tragediante, ma ad una condizione: ricordarsi che, come l’orgoglio è il sentimento di chi non deve chiedere, una politica estera indipendente è il privilegio di chi non dipende da nessuno, in termini elementari e alimentari. La guerra di Kiev potrebbe essere il funerale del sovranismo, quale si era venuto affermando nella seconda metà dello scorso decennio. Ma forse potrebbe anche essere la levatrice di un sovranismo di tipo nuovo, fondato su un virile realismo e soprattutto sull’orgoglio europeo.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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