In-attuali. Gli dei hanno sete di Anatole France

Come è possibile che un pittore sensibile si trasformi in una carogna assetata di sangue? Dategli un'ideologia...

“Gli dei hanno sete” di Anatole France è il libro da leggere, assolutamente, per capire come accade che un uomo, di sani valori e vagamente idealista, possa diventare un piccolo tiranno spietato. France è un gigante della letteratura di ogni tempo, ma il suo valore è negletto. In Italia sarebbe stato del tutto dimenticato se un genio come Leonardo Sciascia non ne avesse curato la traduzione, per Sellerio, de “Il procuratore di Giudea”.  France, figlio di un libraio, ebbe profondissima cultura classica e  fu fin da ragazzo assiduo frequentatore del “Giardino di Epicuro”, per citare un’altra sua opera. Discepolo, dunque, anche di Lucrezio. “Tantum religio potuit suadere malorum”. France, memore della triste e inutile fine della povera Ifigenia, la volle vendicare. Fu nemico di ogni ideologia. E come Lucrezio ebbe a subire la damnatio memoriae dai cristiani che lo diedero morto perché impazzito a causa di un filtro d’amore, così France s’è pigliato schiaffi (chiaramente da morto…) da quelli che archiviata la fede, fecero della politica o delle loro convinzioni filosofiche, loro religione. Li unì tutti contro di lui. Dal “rosso” Aragon al “nero” Drieu. Ne dileggiarono, in un pamphlet corale, il cadavere.

“Gli dei hanno sete” smonta il mito giacobino per svelare l’orrore della Francia rivoluzionaria. E attraverso questo, fa a pezzi ogni retorica precedente e conseguente, a cominciare da quella roussoviana. La parabola del pittore Evariste Gamelin, che agisce sullo sfondo della Parigi dei “certificati di civismo”, di Charlotte Corday e Robespierre, della retorica assediata e paranoica del Terrore, svela – come e meglio di un saggio psichiatrico – il processo che porta un ragazzo normale a farsi aguzzino dei propri simili. Sotto l’Albero della Ragione, si dà la caccia alle vecchie che vendono immaginette dei Santi. Al nome di una dea assetata di sangue, travestita di marmo olimpico ma autentico Moloch bestiale, si offrono sacrifici alla ghigliottina. In nome della Libertà e della Fratellanza, ovviamente con la Lettera Maiuscola che Connota gli Ideali, si ammazza per niente.

Gamelin è un pittore che si industria, tenta di sbarcare il lunario come può. È innamorato della intraprendente figlia di un mercante. Lo nota una gentildonna che, convinta di poter cavalcare la tigre rivoluzionaria ne rimarrà sbranata. Gamelin viene raccomandato a Robespierre ed entra, da giudice, nei tribunali rivoluzionari. Sarà l’inizio della fine.

La Ragione impazzisce. L’ultimo poveraccio sprovvisto di bastevole “civismo” debitamente certificato dalle autorità costituite diventa il più potente dei cospiratori, il più inesorabile degli assassini, il più feroce dei nemici: il traditore, venduto alla reazione. Il capro espiatorio che, per un giorno ancora, terrà in vita un regime di miseria e morte. Va eliminato, perché la società si mondi e l’esempio sia dato. Intanto i cittadini, incarogniti, si spiano l’un l’altro. Provando un sottile piacere infame a inguaiare il vicino che, magari, ha la colpa di sorridere nonostante le avversità. E’ un rischio che non è confinato alla storia. Ma un pericolo vero, che ogni società rischia di correre. Anche oggi, soprattutto oggi.

La sorte di Gamelin è quella di chi, immerso nella paranoia del mondo, tradisce davvero. Non il “regime” a cui si dice leale o meglio ancora fedele, chiaro. Ma gli obblighi che gli deriverebbero dall’umanità e dal più sacro dei vincoli, quello dell’amicizia. E della pietà. Gamelin si macchia del sangue dei suoi simili, dei suoi amici più cari e di chi gli ha fatto del bene. Non rinnega niente, si trasforma lentamente in un mostro incapace di comprendere ogni emozione, ogni parola, ogni rapporto che esuli dalla sua idea di mondo. A dirla tutta, svela France con ghigno compiaciuto, nemmeno un granché di idea. Rousseau, in fondo, non è mai stato chissà che pensatore originale.

Il povero Gamelin non rinnega nulla, pazzo com’è diventato, nemmeno quando a lui toccherà pagare il fio. Immerso com’è in una retorica fatta di complotti a ogni angolo, di dedizione a cause tanto alte da giustificare ogni mattanza come un incidente momentaneo, sacrifica ogni fibra di sé, soggiogato dal mito dell’Ami du peuple. Chiunque egli sia, Marat o Robespierre. Si perde, per nulla. E questo è il destino dell’uomo folle.

Si capisce, dunque, perché France è dimenticato e tale deve restare. C’è chi pensa, oggi più di ieri, che la letteratura, la filosofia siano a tal punto inutili da essere legittime solo, ed esclusivamente, se tese alla creazione di un (qualsiasi) uomo nuovo. Un mito, un ideale tanto vago quanto ancora (troppo) forte nell’immaginario comune. Un romanzo come Gli dei hanno sete rappresenta un pugno nell’occhio, una presa in giro feroce a ogni potere. A ogni latitudine, qualunque sia la missione storica o politica che abbia avuto l’arroganza di consegnare a se e imporre ai suoi cittadini, sudditi o quel che siano.

La vita non può essere intesa solo ed esclusivamente come un pendolo fatale che oscilla pensoso e paranoico tra il dolore del progresso e la noia della conservazione, che poi sono le due facce della stessa identica medaglia. Che raffigura una vecchia bugia ammantata di pomposa retorica. L’uomo ha il dovere di vivere e di coltivarsi. Non quello di recidere gli altri, sia con le armi o con le catene di una religione che, sempre più lontana dalla sfera sacra, si presenta come insopportabile corteo di beghine presuntuose, delatrici e incattivite. Col ditino sempre alzato e la voglia di vedere gli altri soffrire.

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Giovanni Vasso

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