Giornale di Bordo. Quando il Cobra fumò. A proposito di Bolsonaro, di papa Francesco, di Vivaldo Pagni e di quasi cinquecento brasiliani morti in Italia senza violentare nessuno

Una riflessione sulla visita in Italia del leader sovranista e su un militante della Rsi che emigrò poi in Sudamerica: Vivaldo Pagni

Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro

2 novembre. Quei cinquecento brasiliani morti: chi li ha voluti dimenticare, per fare un dispetto a Bolsonaro?

Il rifiuto del vescovo di Pistoia di celebrare la Messa in suffragio dei brasiliani caduti nella campagna d’Italia dei defunti mi lascia sgomento, così come mi lascia perplesso l’assenza del sindaco di Pistoia, esponente  quest’ultimo di Fratelli d’Italia. Era stato convocato, è vero, per una riunione, pare importante, in Regione; ma, viste le polemiche in corso, niente gli avrebbe impedito di mandare a Firenze, com’è prassi in queste circostanze, il vicesindaco o un assessore. Non mi lascia invece sorpreso, anche se non la condivido, l’assenza della sottosegretaria ai rapporti col Parlamento Caterina Bini, esponente del Pd.

Il vescovo ha motivato la sua decisione con l’eccessiva politicizzazione dell’evento, legata alla presenza del presidente del Brasile Bolsonaro, cui in questi giorni è stata conferita la cittadinanza onoraria di Anguillara Veneta, di cui erano originari i suoi antenati, nonché del leader della Lega Matteo Salvini. Ma a politicizzare l’evento è stata proprio l’assenza del prelato e delle altre autorità, insieme alle contestazioni che hanno accompagnato l’itinerario del presidente brasiliano; se insieme a Salvini fossero stati presenti alla cerimonia politici di tutti gli schieramenti non ci sarebbe stato alcun pericolo, come si diceva una volta, di “strumentalizzazioni”.

La Bini, con maggior franchezza, ha motivato la scelta col suo dissenso dalle “idee” e dagli “atti” di Bolsonaro. E senza dubbio, come privata cittadina o come semplice parlamentare, ne avrebbe avuto facoltà. Ma un membro del governo non può subordinare le sue presenze istituzionali alle proprie simpatie personali; come minimo, in questo caso, dimostra uno scarso senso delle istituzioni. Occorre aggiungere che nella cerimonia del 2 novembre non erano onorati Bolsonaro e la sua politica, ma i quasi 500 brasiliani caduti in quella guerra di Liberazione la cui eredità il Pd non manca di celebrare in ogni circostanza, a proposito e a sproposito. A meno che l’unica Resistenza per la sinistra post-comunista sia quella dei partigiani rossi e non quella delle Forze Armate regolari, dei ricostituiti gruppi di combattimento del Regno d’Italia e dei reparti Alleati, che combattevano lealmente indossando una regolare uniforme.

3 novembre. Harkis buona gente? E le marocchinate?

Diversa da quella del vescovo di Pistoia è stata la scelta di papa Bergoglio di officiare la messa in suffragio dei caduti francesi nella Campagna d’Italia, al cimitero militare di Montemario. Al loro riguardo, papa Francesco ha parlato di “brava gente”, “morta in guerra perché chiamata a difendere la patria”, e ha deposto delle rose bianche sulle loro tombe.

In realtà, che si trattasse di francesi non è esatto, perché la maggior parte dei caduti era costituita da truppe coloniali e anche l’espressione “brava gente” rivolta a molti di loro è quanto meno azzardata: senegalesi e marocchini si resero responsabili, com’è tristemente noto, di innominabili atrocità, stuprando donne, bambini, persino suore e seminaristi, uccidendo mariti, figli, fratelli che cercavano disperatamente di difendere mogli, madri, sorelle. La memoria di tali violenze costituisce una macchia indelebile per l’esercito francese e in particolare per il generale Alphonse Juin, comandante in capo del corpo di spedizione. La copia originale del proclama in cui Juin avrebbe promesso alle sue truppe di colore cinquanta ore di assoluta libertà una volta sfondata la linea Gustav non è mai stata reperita, ma senza dubbio – come emerge dal bel saggio di Silvano Olmi Non solo la ciociara (Fergen) – su ogni comandante grava quanto meno la culpa in vigilando sul comportamento delle sue truppe. Come diceva il maresciallo Foch, vincitore francese della grande guerra, compito di ogni comandante supremo è “rien faire, tout faire faire, rien laisser faire”. Lo sapeva bene Pio XII, che quando il Juin gli chiese udienza per l’Anno Santo, gliela negò, nonostante l’alta carica che aveva assunto nella Nato. Altri papi, altri tempi…

p.s. a parziale giustificazione della scelta pontificia si potrebbe addurre l’antica massima secondo cui de mortuis nisi bene. È giusto, e d’altra parte quei soldati coloniali, reclutati dalla Francia per il “lavoro sporco” e tacitamente premiati con l’arcaico diritto di saccheggio, erano stati delle vittime ancor prima che dei carnefici. Ma le donne, i ragazzini, i chierici e le suore violentati e spesso uccisi furono vittime e basta. Anche loro avrebbero meritato una rosa bianca.

4 novembre. E il generale Juin, responsabile quanto meno “oggettivo” degli stupri, fu fatto da de Gaulle maresciallo di Francia

Sempre a proposito di Juin, non posso fare a meno di ricordare che de Gaulle, nonostante il suo comportamento discutibile durante la campagna d’Italia, promosse nel 1952 il generale maresciallo di Francia. E questo nonostante che costui in un primo tempo avesse aderito al regime di Vichy. È uno dei motivi per cui ho sempre considerato de Gaulle un homme grand e non un grand homme (spiego il gioco di parole agli ormai sempre più numerosi non francofoni, anche fra le persone colte: grand in francese può significare sia grande, sia alto. E la statura, quella fisica, di de Gaulle sfiorava i due metri).

5 novembre. Di Getulio Vargas, del cobra e della nicotina

Lo sdegno per un’ingiustizia, a volte, presenta il merito di indurre ad approfondire un argomento, superata la fase di una reazione che può risultare scomposta. L’argomento è l’incredibile storia dell’intervento militare brasiliano nella seconda guerra mondiale e della Força Expedicionária Brasileira, composta da 25.000 soldati, fra ufficiali, sottufficiali e uomini di truppa che combatterono sul fronte italiano, in particolare sulla Gotica. In un primo tempo il capo di Stato brasiliano, Getúlio Vargas, che a differenza di Bolsonaro, regolarmente eletto, era un dittatore populista, non aveva nessuna intenzione di intervenire a fianco degli Stati Uniti. Oltre tutto, in Brasile era forte la presenza tedesca e italiana e all’interno del suo governo erano presenti elementi filonazisti. Rimase celebre una sua promessa, presto smentita dai fatti: “È più facile che un cobra fumi che il Brasile entri in guerra.”

Pearl Harbour indusse però il Brasile, come altri Stati latino-americani, a rompere le relazioni diplomatiche con le nazioni dell’Asse. A provocare l’intervento vero e proprio fu però – com’era avvenuto con gli Usa nella Grande Guerra – la scelta ottusa della Germania di far silurare ai propri sottomarini il naviglio mercantile brasiliano, provocando oltre mille morti (a dire il vero anche due nostri sommergibili contribuirono alle operazioni, e me ne dispiace). Nel luglio del 1944, così, approdò nella penisola la Fed, i cui componenti – a differenza delle truppe coloniali francesi – si distinsero per la correttezza del loro comportamento nei confronti delle popolazioni civili e anche dei prigionieri “repubblichini”. Il cobra aveva cominciato a fumare, e infatti il simbolo del corpo di spedizione brasiliano fu proprio un serpente che fuma.

6 novembre. Quando un “repubblichino” aiutò i militari brasiliani a sminare il terreno, e ne fu ricompensato

Anche un episodio piuttosto squallido del teatrino della politica ha il potere, a volte, di evocare ricordi personali. Ieri ho scritto che i militari brasiliani si comportarono correttamente con i prigionieri delle forze armate della Repubblica Sociale. Un ricordo personale mi permette di aggiungere che ne furono, almeno in un caso, ricambiati. Il ricordo è legato a un singolare personaggio che ho avuto occasione di conoscere quasi un quarto di secolo fa: Vivaldo Pagni. Nativo di Pescia, Pagni era entrato all’accademia della Farnesina, dove si formavano i futuri professori di educazione fisica, grazie a una borsa di studio assicuratagli da Rachele Mussolini. Dopo l’8 settembre aveva aderito alla Repubblica Sociale entrando nella Guardia nazionale repubblicana con il grado di sottotenente. Quando gli eserciti Alleati sfondarono la Gotica ed entrarono nella Pianura Padana, fu fatto prigioniero proprio dal corpo di spedizione brasiliano. Consapevole che la guerra era ormai finita,  fornì al comandante del reparto la mappa dei campi minati evitando ai “carioca” inutili perdite di vite umane. Grate per quel gesto, le Forze Armate gli conferirono la più alta decorazione militare brasiliana, in una solenne cerimonia nella piazza d’armi, di cui conservava una foto nella sua casa di Pescia.

Dopo la guerra, Pagni perse per effetto dell’epurazione la cattedra di educazione fisica ed emigrò in Brasile, dove ripartì dalla gavetta, lavorando come operaio anche per imparare la lingua, indispensabile per superare i vestibulares, severi esami d’ammissione all’università. Grazie alla cosiddetta amnistia Togliatti sarebbe potuto essere reintegrato, ma preferì rimanere in Brasile, dove scorgeva un mondo in espansione. “Se fossi rimasto in Italia, – mi disse una volta – al massimo avrei potuto fare il preside.” Si laureò in giurisprudenza, fu avvocato, dirigente d’azienda, professore di statistica metodologica alla Pontificia Università di San Paolo, proprietario di una grande tenuta agricola; ma in vecchiaia ogni estate faceva ritorno nella sua Pescia. Quasi ogni anno pubblicava un libro e di quasi tutti mi chiedeva la prefazione, che scrivevo volentieri, naturalmente gratis et amore Dei. Era uno strano miscuglio di idealismo e pragmatismo e il suo realismo politico lo pose in contrasto con Mirko Tremaglia, all’epoca promotore della famosa legge per la concessione del diritto di voto agli italiani all’estero. Se lo storico organizzatore dei treni tricolori credeva che i nostri emigrati fossero ancora quelli di una volta, che gioivano per le trasvolate oceaniche di Balbo ed erano grati al regime per avere ridestato il loro senso di appartenenza alla madrepatria, Pagni, che all’estero c’era vissuto da sessant’anni e ci viveva ancora la maggior parte dell’anno, sapeva che gli italiani di seconda e terza generazione avevano perso quella memoria storica, come i risultati elettorali dimostrarono fin troppo bene. Ho ancora negli occhi lo sguardo di dispetto, per non dir altro, che Tremaglia fece quando l’editore Gherardo Lazzeri e io gli porgemmo, prima di un suo intervento, un libro di Pagni, con il quale evidentemente non aveva mai fatto la pace.

Come ho accennato, Pagni era uno scrittore molto eclettico. Pubblicò tra l’altro un saggio in cui cercava di dimostrare che nella sua politica di grandi lavori pubblici perseguita col New Deal, Roosevelt si fosse ispirato al fervore di opere che accompagnò il decennale della marcia su Roma. I suoi romanzi spaziavano dalle vicende degli indios amazzonici all’amore proibito fra un lavoratore italiano in Germania e una “vedova bianca” tedesca, e presentavano sempre un fondo di verità. L’ultimo si intitolava Come campare cent’anni in perfetta salute mentale e fisica (Logisma) e si basava, oltre che sulla sua esperienza personale, sugli insegnamenti ricevuti alla Farnesina da Nicola Pende, pioniere dell’endocrinologia, ingiustamente accusato di aver sottoscritto il manifesto per la Difesa della Razza (in realtà non lo condivideva, perché era uno scienziato serio).

Il libro uscì 2016. Nato nel 1922, Pagni non fece in tempo a presentarlo, perché morì nel luglio dello stesso anno e, anche se la sua pur non precoce scomparsa contraddisse la promessa del suo vademecum, il bilancio della sua vita fu tutt’altro che in passivo. Anche per quel nobile gesto di solidarietà umana nei confronti di quei soldatini venuti dall’altra metà del mondo, che la follia della guerra aveva strappato alle loro famiglie e alle loro case.

 

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Enrico Nistri

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