Ilva, industrializzazione flop: a Taranto è una guerra tra poveri

Prendete questa analisi anche come un atto di dolore di un tarantino, fate voi. Perché la storia di Taranto è una storia dell’assurdo. Ma all’inverosimile si è dovuti arrivare in questa città disgraziata, baciata dagli déi e bistrattata dagli uomini, per guadagnare le attenzioni di un’opinione pubblica distratta. Fino a ieri Taranto non faceva molto notizia; là stava, con i due mari, il porto militare e il gigante siderurgico, nel profondo Sud, a giusta distanza da Bari e dalla moda salentina.
Poi sì, sono arrivate le inchieste, le storie di diossina e tumori, gli animali abbattuti, la crisi dell’acciaio. Ma qualcosa ancora mancava. Insomma, ci voleva l’inverosimile di un magistrato che chiude l’area a caldo dell’Ilva di Taranto, il più grande siderurgico d’Europa che sforna quasi un quarto del Pil pugliese, con gli ambientalisti che festeggiano e gli operai che bloccano la città. Un potenziale disastro occupazionale che si somma ai disastri ambientali certificati e respirati dai tarantini per troppi anni. Dalla culla alla tomba. Ecco cosa doveva succedere perché il dramma di una città, che è stata la grande speranza tradita dell’industrializzazione meridionale, finalmente potesse schizzare sulla ribalta nazionale la sua eco velenosa. L’eco di una storia cinquantennale, datata 1961, quando programmi scriteriati di dirigismo industriale decisero di costruire a ridosso del centro abitato uno stabilimento che è grande due volte una città di duecentomila abitanti.
Da allora Taranto è diventata quel che è oggi, ma a tappe. Un piccolo centro, di pesca e marina militare, s’è fatto l’unica vera città di immigrazione del Meridione, approdo di quelli che Valter Tobagi definiva “metalmezzadri”, i contadini in tuta blu arrivati da ogni parte del Sud. Taranto è stata la città una piena occupazione, con un reddito procapite uguale a quello del Nord più florido. È stata teatro di un esperimento di “salto nella modernità” che ha affiancato all’Ilva e alle sue decine di migliaia di lavoratori un indotto economico gigantesco di impianti e logistica. Nella bélle epoque degli anni Settanta e Ottanta, nei negozi tarantini veniva mezza Puglia, e pure mezza Lucania, per fare la “vasca” del sabato sera. C’era la ricchezza, c’era il lavoro, arrivavano i giapponesi a prendere lezioni di tecnologie produttive. C’erano anche i morti sul lavoro e i primi disagi ambientali, in fondo una pineta enorme e un ecosistema erano stati sventrati per far posto alle cim
iniere, ma importava poco.
Poi la crisi dell’acciaio ha cambiato tutto. Oggi di quel passato restano le macerie. E la polvere lasciata sotto i tappeti, per macabra magia, ha cominciato a rendersi visibile, nella forma rossiccia dei residui industriali, depositandosi sui parchi, sulle auto, sui balconi, nel respiro di un’intera città. La disoccupazione ha fatto il resto, e dal 1991 la slavina demografica ha privato Taranto di trentacinquemila abitanti (e di emigrazione di eccellenze): tanto per fare un paragone, come se Roma avesse perso mezzo milione di residenti.
Taranto, scrive Franco Arminio, appare agli occhi del visitatore come una “piccola apocalisse” di color ruggine, rosso e violetto. L’agricoltura, l’allevamento e la miticoltura sono al collasso, e del turismo è meglio tacere. Dentro la fotografia di questo scempio ben figurano i proprietari dell’Ilva, la famiglia Riva, storicamente sensibile all’impatto sociosanitario della produzione d’acciaio come i capitalisti manchesteriani nell’Ottocento, e una classe politica e sindacale pigra, nanesca e talvolta in malafede, che ha gestito al ribasso il “ricatto occupazionale”, ovvero lo scambio tra il mantenimento di livelli occupazionali già striminziti e una gestione per molto tempo disinvolta delle norme di precauzione ambientale e sanitaria. Poi negli ultimi anni le evidenze sull’inquinamento da diossina, gas, polveri e fumi, i dati di una devastazione a livelli terzomondiali, hanno spinto le istituzioni a muoversi e hanno destato bruscamente la città, attivando il cortocircuito
della paura (che, si sa, è cattiva consigliera).
Alla fine l’Ilva è stata costretta a muoversi, seppur in ritardo, sulla strada della bonifica. Per questo il blocco dell’“area a caldo” del siderurgico arriva nel momento più sbagliato, proprio il giorno in cui sono stati stanziati 300 milioni di euro (ancora pochi soldi, servirebbero miliardi) per risanare l’ambiente a Taranto. E arriva nella forma peggiore. Perché nel breve periodo non apporterà benefici all’ambiente. Perché manca un piano reale di rilancio industriale ecosostenibile dell’area. Perché si è già scatenato ciò che era facile prevedere: una devastante guerra tra poveri. Da una parte gli operai che vogliono conservare il posto di lavoro, dall’altra gli ambientalisti che vogliono la chiusura definitiva dell’Ilva. Alla fine, a meno di credere a un improbabile “miracolo tarantino”, le vittime di questa tragedia rimarranno i più deboli, e il futuro di una città che ha prestato all’industrializzazione italiana la sua terra e i suoi polmoni. Ricevendo in cambio un’illusione tramontata presto.

* dal quotidiano Libero del 27 luglio 2012

Angelo Mellone

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