Si muove bene Aristofane in mezzo a tutto quel bianco da giardino dei ciliegi strehleriano, voluto da Antonio Calenda per Le Nuvole, più che deluso per il bronzo alle Dionisie del 423 a. C. , feste in cui debuttò la sua commedia più intellettuale. Aristofane reagì con stizza al mancato gradimento del pubblico, lamentandosi l’anno successivo nella parabasi di Vespe e facendo una nuova edizione della commedia “arguta, profonda e intelligente” a beneficio di spettatori capaci di apprezzare “nuove storie, idee originali, sottili, intelligenti, brillanti mai banali”. Se lo scrive, Aristofane, il suo Discorso Migliore (o Peggiore?) – rimbrottando gli ateniesi in quel momento alle prese con la guerra del Peloponneso, con la peste e con il demagogo Cleone, con la veemenza di chi mal sopporta la sciatteria sia politica sia culturale.
La commedia
Le Nuvole sono da considerarsi un vero manifesto intellettuale in cui al centro, per dirla con Laurent Binet, c’è la settima funzione del linguaggio, quella incantatoria, talmente performativa che affermare una cosa vuol dire farla accadere. Questo vorrebbe il vecchio Strepsiade – interpretato da Nando Paone in grazia di dio o meglio di tutta la tradizione mimico comica da Peppino De Filippo a Nino Taranto- quando per evitare di pagare i debiti contratti a causa dei vizi del figlio Filippide, decide di affidarsi allo strozzinaggio della parola dei sofisti.
Si reca al Pensatoio di Socrate – un Antonello Fassari garbato, talvolta incerto ma con una buon timbro scenico- e cerca di imparare l’arte della retorica. Che qui (e sempre) aiuta chi vuole perpetrare imbrogli, manipolare la giustizia, imbonire il popolo ignorante.
Strepsiade, la maschera dello zotico cara ad Aristofane poi passata tra tutte nella commedia latina, troppo vecchio per imparare, manda nel Pensatoio di Socrate Filippide.
Il giovane (interpretato dal versatile Massimo Nicolini è nella visione di Calenda un dandy di fine Ottocento con erre moscia e cavallo a dondolo) assiste al funambolico agone tra il Discorso Migliore (Stefano Galante bravissimo nei panni di uno Scrooge eticamente rinsavito) ossia i principi dell’educazione tradizionale- e il Discorso Peggiore (Jacopo Cinque capace di rendere la scompostezza arrogante del personaggio) proprio della morale sofistica. Il giovane Filippide ammirato dalla vittoria del secondo, mette in pratica gli insegnamenti socratici e retorica alla mano picchia il padre, prova a convincerlo che lo fa per il suo bene, rivoltando gli stessi discorsi di Strepsiade a lui bambino.
Ad Aristofane non manca qui l’occasione di citare il biasimato Euripide di Alcesti e nemmeno di fare la sua parte di intellettuale engagè: mette in mano una torcia –eschilea- a Strepsiade, fa bruciare il Pensatoio e fa cenere di ogni tentazione populista. Offendere gli dei e “guardare il culo alla luna”, porta Strepsiade a pagare un fio ancora più duro dei debiti. Guai a rivoluzionare il nomos a favore della δόξα (opinione), avverte Aristofane, puntando tutto sulla mistificazione del linguaggio di cui la sofistica è fucina e palestra. A Strepsiade non resta che rinnegare la tentazione del nuovo, tornare alla democrazia dei “maratonageniti” per evitare la deriva etica e pedagogica in atto, visto che- grida il coro- “per oggi si è ballato a sufficienza”. Come dire che il populismo (Aristofane lo chiamava demagogia) è un ballo durato tanto a lungo che i ballerini rischiano seriamente di cadere stramazzati. Col rischio, pure, di restare con una finocchio/a o una pollo/a in mano. Tutto da gustare Aristofane che fa l’imprevedibile verso ad asterischi e schwa, seppellendo con una crassa risata tutto il politicamente corretto!
Aristofane e Antonio Calenda. Il messaggio è chiarissimo ma tocca a Calenda fare il suo Discorso Migliore con un finale che sposta ancora di più la commedia verso il dramma: i pannelli di tela bianca sullo sfondo dell’orchestra prima mostrano l’addensarsi delle nuvole poi tirati giù diventano terra bruciata, mentre dal coro si leva un canto cupo. A eseguirlo è Caterina Fontana, allieva dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico (coro e due discepoli di Socrate sono artisti dell’Adda).
E le Nuvole? Per Aristofane sono una metafora al limite della polisemia: volatili e cangianti come il pensiero (logòs), elementi della natura (fanno piovere, tuonare e cadere fulmini), baluardi soffici e permeabili di una sorta di horror vacui della parola, punitrici e vendicatrici al tempo stesso. Per la regia filologica di Calenda le nuvole sono eteree creature che piombano in scena con la scanzonata eleganza di un acquerello (i cappelli di tulle della Belle Epòque imitano i colori delle nuvole ora piene di vento ora cariche di tempesta) e la morbida sinuosità dei corpi (notevoli le coreografie di Jacquelines Bulnes attenta a rifare strofi e antistrofi).
Nuvole sembrano le corifee (Galatea Ranzi e l’abile Daniela Giovannetti) consumando quel passaggio dal realismo all’onirico proprio della sperimentazione scenica di Aristofane.
Se qualcuno, a questo punto, chiedesse se l’allestimento di Calenda lasci spazio alla risata di pancia, sarebbe lecito nicchiare un po’. Antonio Calenda ha firmato una regia di assoluta eleganza, vivace ma non scomposta: scorregge e cazzi sono parole e gesti misurati. D’altronde, seguendo il senso dell’operazione registica di questa stagione di rappresentazioni classiche, nelle regie di Davide Livermore, Carlus Padrissa e pure questa di Antonio Calenda, il rispetto del testo e dell’autore è stato totale.
La comicità e il metateatro
Aristofane – ossia uno Stefano Santospago che nei pochi minuti della parabasi e poi nelle incursioni mute in scena vale tutta la commedia e strappa il primo dei nove stacchi di applausi – rivendica una comicità non triviale né buffonesca, anticipando anche qui le derive del linguaggio comico proprio della televisione e dei cinepanettoni e dei Bagaglini.
Senza rinunciare alle gag: divertente omaggio a Gianni Zullo dei Brutos è la performance di Giancarlo Latina, del coro dei discepoli di Socrate; gradevole è il siparietto dei creditori Alessio Esposito e Matteo Baronchelli.
Benvenuto Brecht- per dichiarazione esplicita dello stesso Calenda- e tutto il teatro epico che sbatte in faccia al pubblico la finzione. Conservatore in politica, avanguardista in arte fu Aristofane. E Calenda fa bene a proiettarlo in un Novecento ricostruito grazie ai costumi “parlanti” di Bruno Buonincontri: sua è anche la scenografia essenziale con oggetti di scena alla rinfusa cifra del grottesco relativismo attaccato da Aristofane. Grazie alle musiche di Germano Mazzocchetti in un tripudio di marcette, valzer, opera buffa, suoni etnici e avanspettacolo anch’esso “parlante” sebbene- ahimè- non dal vivo. Ma è nel linguaggio che questo allestimento delle Nuvole scompone e ricompone il gioco.
La traduzione felice oltremisura (anche nelle parti in versi e nel profluvio comico di rime facili, alternate e baciate) di Nicola Cadoni celebra il rito trinitario di Socrate “Il caos-che qui regna sovrano- le Nuvole, La Lingua.”. Il ricco e vario registro lessicale alloca la sgargiante espressività di Aristofane nella medietà del vocabolario e delle battute, oltre che nell’estrema modernizzazione dei termini. Al punto che la tirata fin troppo palese contro politici ed elettori stempera ed esalta al contempo l’onomastì komodèin greca. Un trionfo di polle, finocchie, reddito di contadinanza, bamboccioni, tangenti, parole composte come scioglilingua ma soprattutto citazioni. Aristofane cita Eschilo ed Euripide e Cadoni con oltranza di traduttore dissemina il testo di versi da Leopardi di Alla luna a Manzoni di Il cinque maggio. Così il gioco scenico è bell’e fatto: tra le pietre del teatro, tra le note di regia, tra le pagine del traduttore e tra gli spettatori. I quali non possono limitarsi solo ad applaudire ma sono spinti nel gioco di trova la citazione. Quarta parete in frantumi e Aristofane/Santospago se la ride. Con compostezza.