Prerogative della storiografia d’oltremare portoghese del Cinquecento/2

Spiriti liberi, precetti ciceroniani e un Impero in crisi: Gaspar Correia, Joao de Barros e Diogo do Couto

Di certo meno colto di Fernão Lopes de Castanheda è Gaspar Correia, che visse per oltre cinquant’anni in Oriente, giungendovi molto giovane nel 1512 e morendovi assassinato nel 1563. L’avere avuto la possibilità di svolgere diversi incarichi militari e amministrativi – tra cui quello di segretario del viceré dello Stato dell’India Afonso de Albuquerque, dal 1512 al 1515 – gli consentì oltre che di essere a volte testimone oculare dei fatti da lui narrati anche di avvicinare molti dei protagonisti. Le sue Lendas da Índia (nel senso di memorie di cose e fatti sull’India che meritano di essere lette), pubblicate solo nella seconda metà dell’Ottocento, abbracciano la storia degli avvenimenti occorsi in Oriente dal 1497 al 1550 [cfr. CORREIA, 1975: 4 voll.]; questo fa sì che rappresentino, nel loro insieme, appunto le lendas dei primi quindici governatori portoghesi in Oriente, da Francisco de Almeida a Jorge Cabral – tutti, ad eccezione del primo, personalmente conosciuti dall’Autore. Correia copiò questa sua opera due volte di propria mano. A quanto risulta, la prima copia fu conclusa nel 1552, anno in cui vide la luce la prima decade di João de Barros, le cui copie avrebbero raggiunto l’India proprio nell’autunno di quell’anno. Nel corso degli anni successivi, Correia continuò a revisionare l’opera, e quasi certamente, ampliandola e rifondendola nella seconda copia, alla quale lavorò nel 1561, gli furono in qualche modo d’aiuto sia le prime due decadi di Barros (la seconda fu pubblicata nel 1553) sia i primi sette libri della História di Castanheda (stampati, lo ricordo, tra il 1551 e il 1553), e questo nonostante Correia non menzioni mai i loro nomi, né faccia alcun riferimento alle loro cronache.

La scarsa cultura di Gaspar Correia ha fatto sì che nei suoi confronti si determinasse da parte della critica una diversità di giudizi. Certamente non era un umanista né tanto meno uno storico di professione, ma una persona di cultura media per quell’epoca. Difatti, tranne quei pochi libri e manoscritti sull’Oriente, di cui ha fatto uso, parte dei quali, peraltro, da lui citati, nella sua opera non c’è alcuna allusione letteraria ai classici. Talvolta, senza dubbio, il suo stile è prolisso, si trascina lentamente, con errori di sintassi e concordanza grammaticale e con moltissime ripetizioni. Sostanzialmente, Correia ricorre all’uso di una struttura linguistica più orale che scritta. A ben vedere, tuttavia, tutto ciò contribuisce alla vivacità, chiarezza e spontaneità della sua narrazione, e gli consente di creare abilmente qualsiasi tipo d’atmosfera, anche la più esotica, e di presentarci una qualunque scena con abbondanza e vivezza di dettagli, genuinamente orientali, che danno calore alla scena stessa e creano un quadro dell’India e dei portoghesi d’Oriente d’ineguagliabile valore.

Quanto al tono – che s’accompagna, a volte, a emozione, altre, a ironia – con cui narra gli avvenimenti, presentati con drammaticità, esso denuncia un’esperienza di vita vissuta, fatta spesso di disillusioni e amarezze, visto che Gaspar Correia si trovò ad assistere all’inizio della decadenza dell’Impero Portoghese d’Oriente.

Il fatto che non fosse né un cortigiano né uno storico di professione faceva di lui uno spirito libero e talmente scrupoloso nella ricerca e nell’accertamento della verità storica da non avere alcuna intenzione di pubblicare la sua opera. Correia stesso riferisce questo particolare nel prologo, in cui si rivolge – la qual cosa è molto significativa – non al sovrano o a un nobile, com’era d’uso al tempo, ma «Ai Signori Lettori»:

 

«[…] lavorerò soltanto allo scopo di scrivere per intero le nobili azioni dei nostri Portoghesi militanti in queste parti dell’India, e dei grandi e dei piccoli, se c’è la necessità e la ragione, scriverò di ciascuno, in piena verità, tanto le cattive quanto le buone azioni, così come si sono date, senza togliere a nessuno il suo merito nel bene e nel male, assicurando di non mostrare mai ad alcuno, finché sarò in vita, questa leggenda […]» [IDEM: I, 2-3].

 

Passando a João de Barros, uomo di nobile estrazione e educato alla corte di Emanuele I, occorre premettere che, diversamente da Fernão Lopes de Castanheda e da Gaspar Correia, appartiene alla categoria degli storici cosiddetti sedentari, ossia, quegli storici che raccoglievano, catalogavano e interpretavano le informazioni, orali e scritte, standosene nel proprio gabinetto di lavoro.

Effettivamente Barros non si recò mai in Oriente. Ciononostante era ben informato sugli avvenimenti che occorrevano nell’oltremare portoghese. Questo a seguito delle varie e importanti cariche amministrative che ricoprì in Portogallo, la prima delle quali, ottenuta nel 1525, fu quella di tesoriere della Casa da Índia. Più tardi, nel 1533, Giovanni III lo investì delle alte funzioni di feitor, d’amministratore delle Casas de Guiné e Índia, funzioni detenute per oltre trent’anni, fino al 1567. Quest’ultima carica, di grandissimo prestigio e che consisteva nel soprintendere a tutte le transazioni economiche e fiscali delle merci provenienti dai territori portoghesi in Africa e in Asia, tornò molto utile al Barros storico, considerata la possibilità di contattare direttamente persone provenienti dall’oltremare e ottenerne così informazioni di prima mano.

Fu nel 1531 che João de Barros (scrittore, ricordiamolo, di formazione umanistica, con all’attivo una vasta produzione che abbraccia temi e generi variamente sfaccettati) iniziò a redigere, senza tuttavia portarla a conclusione, un’opera storico-geografico-economica. Questa per certi versi monumentale enciclopedia si sarebbe dovuta suddividere, secondo un piano esposto dallo stesso Barros, in tre parti: con la prima parte, dedicata alla «Milizia», l’Autore si prefiggeva di narrare, in scala mondiale e sul modello fornitogli da Tito Livio (il quale – com’è noto – con la sua opera celebrò la storia di Roma contribuendo, in una posizione autonoma, al progetto culturale augusteo) le conquiste dei Portoghesi in Europa, Africa, Asia e Santa Cruz (ossia, il Brasile); la seconda parte, dedicata alla «Geografia» e redatta in latino, avrebbe dovuto essere, nelle parole dello stesso Barros, «la Geografia dell’intero mondo conquistato e scoperto» [BARROS, 1973: 7°, s. pp. (14)]; la terza e ultima parte, dedicata al «Commercio», avrebbe dovuto occuparsi dei prodotti, sia naturali che «artificiali», di pesi e misure, nonché degli scambi commerciali regolati da apposite leggi. Di questo progetto ambizioso rimangono solo le prime quattro Décadas della prima parte, dedicate all’Asia: le prime tre pubblicate, rispettivamente, nel 1552, 1553 e 1563 e la quarta, postuma, pubblicata nel 1615 da João Baptista Lavanha, che la rivide e rifuse (le prime due decadi furono tradotte in italiano e pubblicate a Venezia in due edizioni, 1561 e 1562, dallo spagnolo Alfonso de Ulloa).

João de Barros, da vero panegirista di corte oltre che insigne umanista, aveva della verità storica un concetto selettivo. Tale concetto è da lui ben espresso nel Prólogo alla seconda decade, in cui afferma che, così come accade allorquando si desidera costruire un edificio che diletti la «vista del Mondo intero», anche per la sua opera-monumento avrebbe scelto le «pietre» meglio «tagliate e levigate» (ossia, fuori di metafora, avrebbe riportato i fatti eroici in cui si erano distinti i Portoghesi, tralasciando quelli meno nobilitanti) [cfr. IDEM: 3°, s. pp. (2)].

Intendendo la Storia, alla maniera liviana, non solo come memoria del passato ma anche e soprattutto come paradigma per il futuro, l’intento di João de Barros è chiaramente moralizzatore. Considera la verità un elemento sì essenziale della Storia, ma non fino al punto che possa trasformarsi in strumento di delazione e offesa.

Nel Prólogo alla terza decade, facendo suo il precetto ciceroniano secondo cui la prima legge della Storia è il non mentire e la seconda è il non raccontare per intero la verità, Barros scrive:

 

«La prima e più importante condizione della Storia è la sua verità; tuttavia, limitatamente ad alcune cose, non deve essere così tanta fino al punto che le si adatti il detto “giustizia sproporzionata sfocia in crudeltà”, soprattutto quanto a quelle cose che riguardano l’infamia di qualcuno, sebbene siano vere» [IDEM: 5°, s. pp. (10-11)].

 

«E dato che la Storia è un terreno coltivato e un campo dove è seminata tutta la dottrina Divina, Morale, Razionale e Strumentale, chi si nutre del suo frutto, lo trasformerà in forze dell’intelletto e in memoria da utilizzare per una vita giusta e perfetta, con cui aggradare Dio e gli uomini […]» [IBID.: s. pp. (3)].

 

Questa concezione della Storia, che, peraltro, si avvale di tutte le regole della retorica classica («la storia è un’arte oratoria» diceva Cicerone) – da qui l’aver João de Barros modellato il proprio stile su quello di Tito Livio, dal punto di vista tanto lessicale, con l’impiego di molti latinismi, quanto sintattico, ricorrendo alla frase lunga e complessa, in cui si fa largo uso delle subordinate – fa sì che le Décadas da Ásia possano essere considerate, a tutti gli effetti, nelle parole di Luís Filipe Barreto, come

 

«[…] una delle costruzioni discorsive più perfette dell’ideologia imperiale dominante nel corso del Cinquecento, presentando un Portogallo epico facitore della città di Dio in cambio del costante appoggio del divino alle scoperte» [rip. in ALBUQUERQUE, 1994: I, 124-126 (125)].

 

Per finire abbiamo Diogo do Couto, anch’egli come João de Barros di nobile famiglia ed educato alla corte di Emanuele I. Nonostante fosse ben incamminato negli studi umanistici, Couto decise, ancora giovane (aveva poco più di sedici anni e probabilmente ebbero un loro peso in questa sua decisione le morti, avvenute a poca distanza temporale l’una dall’altra, del principe Luigi, suo signore e protettore, e del padre), di intraprendere la carriera delle armi, partendo per l’India nel marzo del 1559. Tale fase militare della sua vita (che gli consentì di acquisire l’esperienza del soldato, come lui stesso avrebbe scritto, «prático nas coisas da Índia», espressione poi ripresa nel titolo della sua opera più famosa, O Soldado Prático – un autentico libello accusatorio, in forma di dialogo, contro gli abusi e la corruzione dell’amministrazione portoghese in Oriente) durò dieci d’anni. Nel febbraio del 1569 s’imbarcò per il Portogallo, forse con l’intenzione di non far più ritorno in Oriente. La vita di corte, tuttavia, già non si confaceva al suo temperamento, al suo spirito d’indipendenza. Cosicché, nel 1571 sarebbe ripartito per l’Asia, rimanendovi ininterrottamente fino alla morte, occorsa a Goa nel 1616.

Nel 1595, dopo una prima esperienza come funzionario addetto agli approvvigionamenti alimentari, ottenne da Filippo I il doppio incarico di conservatore dell’Archivio regio dello Stato dell’India e di cronista ufficiale dell’Asia; ricevendo al contempo, sempre dal sovrano, l’ordine di continuare le Décadas di Barros.

Scrisse in totale nove Décadas da Ásia, dalla IV alla XII, riprendendo nella IV decade la sequenza dei fatti narrati da João de Barros nella III decade, che terminava con la morte di Henrique de Meneses, settimo governatore dell’India, occorsa alla fine di febbraio del 1526 (a tale riguardo è bene ricordare come all’epoca s’ignorasse l’esistenza della IV decade di Barros, rimasta manoscritta per molti anni e solo pubblicata, come già riferito, nel 1615) [cfr. COUTO, 1973-1975: 15 voll.].

Di queste sue nove decadi – la cui materia storica abbraccia un periodo di sessantacinque anni, fino a tutto il governo di Francisco da Gama (1597-1600) – Diogo do Couto ne vide pubblicate solo quattro (IV, V, VI e VII, date alle stampe tra il 1602 e il 1616). Quanto a quelle pubblicate postume, solo la X risulta completa. L’VIII e la IX gli furono rubate; Couto le riscrisse più tardi in forma di sommario. Anche l’XI scomparve misteriosamente – di essa ci resta solo un riassunto, suddiviso in capitoli. Della XII abbiamo solo i primi cinque libri.

Le varie vicissitudini sofferte da quest’opera ci danno in qualche modo la misura dello scrupolo con cui Couto procedeva tanto nella raccolta quanto nella trasmissione dei dati storici; e questo pur sapendo che nel raccontare verità scomode e azioni censurabili correva il rischio di farsi dei nemici. Parlo di scrupolo e non d’imparzialità, poiché è difficile stabilire fino a che punto l’acredine e i risentimenti personali di Diogo do Couto – così ben espressi nella corrispondenza da lui inviata a Francisco da Gama, suo protettore, e dovuti al mancato raggiungimento di obiettivi materiali e onorifici cui puntava – abbiano potuto condizionare i suoi giudizi.

Nonostante possedesse una cultura umanistica, Diogo do Couto si differenzia di molto da João de Barros, non solo quanto al concetto di verità storica (che Couto, contrariamente a Barros, riteneva che dovesse essere integrale e non selettiva), ma anche da un punto di vista stilistico. Rispetto a quella di Barros la sua prosa è – come dire? – meno eccessiva, più diretta, animata non di rado da uno stile colloquiale. A volte, tuttavia, risulta appesantita da un accumulo sproporzionato di esempi libreschi e, ad un tempo, è lontana dal rigore sintattico e stilistico di quella di Barros.

Probabilmente tanto questi quanto altri aspetti negativi dell’opera storiografica di Couto, che la critica è solita segnalare, non sono tutti a lui imputabili. Occorre, difatti, mettere in conto gli interventi, a livello sia contenutistico sia formale, che le sue decadi hanno subito, nel corso del tempo, da parte di correttori e revisori più o meno abusivi.

D’altronde, dei grandi storici portoghesi dell’Oriente, forse il solo João de Barros fu esentato dal pagare questa specie di dazio che indiscutibilmente avrebbe intaccato, in varia misura, la completezza e l’affidabilità, in termini di trasmissione, di tutte le opere storiografiche epocali.

 

(Fine)

Leggi qui la prima parte

 

Riferimenti bibliografici

– ALBUQUERQUE, Luís de (direcção de), 1994. Dicionário de História dos Descobrimentos Portugueses. Círculo de Leitores, Lisboa: 2 voll.

– ALBUQUERQUE, Luís de, s. d. (3ª ed. revista). Introdução à História dos Descobrimentos Portugueses. Publicações Europa-América, Lisboa.

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– CORREIA, Gaspar, 1975. Lendas da Índia. Introdução e revisão de M. Lopes de Almeida. Lello & Irmão – Editores, Porto. 4 voll.: I (Aos Senhores Leitores, pp. 1-3).

– COUTO, Diego de, 1973. Da Asia de Diogo de Couto. Dos feitos, que os Portuguezes fizeram na conquista, e descubrimento das terras, e mares do Oriente. In Da Asia de João de Barros e de Diogo de Couto. Nova edição […]. [Copia fotostatica: Lisboa. Na Regia Officina Typografica. Anno mdcclxxvii-xxxiii, mdcclxxxvi e mdcclxxxviii]. Edição da Livraria Sam Carlos, Lisboa. 24 voll.: 15 voll. (dal 10° al 24°).

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– LOPES, Fernão, 1980. Crónica del-rei Dom Joam da boa memória. 1.ª Parte. Prólogo. In Crónica de D. João I de Fernão Lopes. Apresentação crítica, selecção, notas e sugestões para análise literária de Teresa Amado. Seara Nova, Lisboa: 75-79.

– MARQUES, J. Martins da Silva, 1944-1971. Descobrimentos Portugueses. I.C.A.L.P., Lisboa: 3 voll.

– MORAIS, Carlos Alexandre de, 1997 (2.ª edição, revista e aumentada). Cronologia da Índia Portuguesa 1498 – 1962. Editorial Estampa, Lisboa.

– POLIBIO, 2021 (5ª ed.). Storie. Volume Quinto (Libri XII-XVIII). A cura di Domenico Musti. Traduzione di Manuela Mari. Note di John Thornton. Testo greco a fronte. BUR, Milano.

– ZURARA, Gomes Eanes da, 1973. Crónica de Guiné (Segundo o ms. de Paris. Modernizada. Introdução, novas anotações e glossário de José de Bragança). Livraria Civilização – Editora, Porto.

 

[Tutte le traduzioni dei testi dal portoghese sono a mia cura]

Brunello Natale De Cusatis

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