Georg Simmel e la critica del marxismo

La riflessione su denaro e lavoro nel mondo capitalista

Georg Simmel

Il volume di Georg Simmel per Mimesis

La filosofia europea, tra la fine del secolo XIX e i primi decenni del XX, è stata costretta, non solo per ragioni meramente teoriche, ma in quanto sollecitata dagli avvenimenti storici, ad un confronto serrato, in molti casi critico, con il pensiero marxista. In tale congerie intellettuale si distinse Georg Simmel, lucido interprete della modernità e di suoi sommovimenti interni, che chiuse i suoi giorni nell’anno fatale 1918: ebbe in sorte di uscire di scena assieme all’Europa. E’ da poco nelle librerie, per i tipi di Mimesis, una sua opera diventata un classico, Filosofia del lavoro, curata da Francesco Valagussa, autore del contestualizzante ed esplicativo saggio introduttivo (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, 02/24861657, pp. 129, euro 9,00). Si tratta, in realtà, di un articolo comparso in Germania nel 1899 sulla rivista Neue Deutsche Rundschau e successivamente integrato nel volume Philosophie des Geldes.

  L’opera è inaugurata da un’affermazione apodittica e significativa: «Sopra il mondo dell’essere si erge il mondo dei valori» (p. 66). Da ciò si comprende come Simmel rappresenti un punto d’arrivo teorico nel quale diverse suggestioni e analisi, trovarono conclusione. Tra esse vanno almeno ricordate quelle discendenti dal criticismo kantiano, dall’idealismo e dalle indagini sociologiche. Il filosofo è fortemente convito di quanto ebbe a rilevare Nietzsche, vale a dire che il valore delle cose dipende da un atto del soggetto, siamo noi a concedere valore alla realtà: «Soltanto noi abbiamo creato il mondo che in qualche modo interessa gli uomini» (p. 10). Insomma, valore è ciò che nelle cose suscita il nostro interesse. Senza di esso, non avremmo alcun rapporto pratico, nessun commercio con il mondo. Ci rivolgiamo a dati aspetti del reale sospinti dall’interesse. Il valore, pertanto, è una sensazione, la cui formazione nei singoli risulta inafferrabile. Accanto al mondo dell’essere vige il regno del valore, che si mostra nei rapporti sociali, in quanto l’uomo è  “animale che scambia”.

   Lo scambio, nel mondo moderno, è regolato dal denaro. Qual è la sua natura, si chiede Simmel?  La sua natura va colta nell’essere indifferente e sempre all’opera, in quanto “tiene insieme tutto”: assegna un preciso valore a tutto senza vincolarsi a nulla di determinato, è il rappresentante universale dei rapporti sociali e di scambio, senza, in realtà, rappresentare alcunché: «scivola senza resistenze interne da una persona all’altra» (p. 22), rendendo chi lo possiede, come avrebbe chiosato Hofmannsthal, “uomo qualunque”. In ogni caso, il denaro permette di sperimentare la “arrendevolezza delle cose”, inoltre esso è non oggettuale per definizione, manca di forma, è il cemento, la forza magico-bruniana che unisce, solo in superficie, si badi, l’atomismo sociale moderno. Il denaro è il nuovo dio al quale ci si affida con fiducia e fede condivisa. Da ciò si evince, come anche nel mondo dominato dalla ratio calcolante, ogni aspetto della vita si scopre fondato, sottolinea Valagussa: «su mondi mitici, su una vera e propria mitologia» (p. 27), riposta nella funzione della moneta che garantisce la continuità dei rapporti economici.

   A questo punto della propria esegesi, Simmel incontra e discute il concetto marxiano di “lavoro-denaro”, chiedendosi se davvero il lavoro, come nelle corde del pensatore di Treviri, possa essere considerato misura del valore delle cose. Egli è convinto dell’assenza nel marxismo di un’analisi effettivamente concreta delle contraddizioni del capitalismo, alla quale è stata sostituita un’esegesi dogmatica, utile esclusivamente alla mobilitazione politica delle masse. Essa si fonda sulla contrapposizione tra esteriorità materiale ed interiorità. In tale plesso teorico, ricorda il curatore, il filosofo anticipa tesi che saranno di Benjamin: «la materia è una rappresentazione, e non un’essenza totalmente al di fuori di noi e contrapposta all’anima» (p. 37). La fonte del valore è un fare dell’anima. Siamo rinviati, pertanto, alla dimensione dell’interesse. Inoltre, a differenza di Marx, Simmel sa che il lavoro intellettuale non può essere ridotto a quello fisico-materiale. Del resto, senza attività intellettuale, risulta “non attuabile” qualsivoglia attività manuale. Per tale ragione, non è assolutamente possibile, come vorrebbe il marxismo ortodosso, procedere ad un livellamento delle posizioni dei lavoratori: «la produttività dipende […] da quell’interazione sociale i cui effetti risultano in generale incalcolabili» (p. 42).

  Per il lavoro intellettuale è necessario, al fine di determinarne il valore, tenere in considerazione, non solo la prestazione in se stessa, bensì le lunghe ore di preparazione in essa incorporate. Da ciò deriva che, per il filosofo, il lavoro-valore non debba essere giudicato alla luce della mera quantità, ma, al contrario, sull’utilità del suo risultato, in quanto: «l’intero valore e l’intero significato degli oggetti e del loro possesso risiede nei sentimenti che essi destano» (p. 45). Insomma, il valore del lavoro va colto nel volere, nello spirito di sacrificio di chi vi si dedica, nel superamento da parte di tale soggetto delle sensazioni interiori di ostacolo e di difficoltà. Lo “sforzo interiore”, tanto nel lavoro materiale quanto in quello intellettuale, è la fonte del valore. Crollano così, sotto le critiche di Simmel, i presupposti teorici del dogmatismo marxista, in quanto egli mostra l’erroneità della tesi che ogni lavoro abbia uguale valore. Peraltro, conclude, l’ideale della moneta-lavoro è impraticabile in quanto non esiste il lavoro in sé, il lavoro è sempre condizionato da situazioni, contesti e persone. Da ciò discende che riequilibrio della proprietà e dei consumi, intenzioni politiche del socialismo, siano: «sogni di un suddito» (p. 53).

  Il socialismo, sostiene Simmel, aveva di fronte due strade. La prima è quella che effettivamente percorse con la rivoluzione d’Ottobre: sostituire all’anarchia produttiva capitalista la statalizzazione dell’economia, che il pensatore definisce “via del regresso culturale”. Oppure, la via dell’innalzamento culturale che avrebbe dovuto indurre la rinuncia a: «dedurre scientificamente che tutto il lavoro abbia eguale valore» (p. 57). Ma ciò implicava uscire dai confini teorici del marxismo stesso. Filosofia del lavoro è un libro utile non solo per comprendere il periodo storico nel quale fu elaborato, ma per pensare un domani diverso dal presente.

Giovanni Sessa

Giovanni Sessa su Barbadillo.it

Exit mobile version