Giuseppe Culicchia: “L’Italia non vuole interrogarsi sugli Anni di Piombo”

Lo scrittore torinese ha subito aspre critiche, da sinistra, per il libro sul cugino brigatista ucciso dalla polizia

Giuseppe Culicchia

Giuseppe Culicchia (Torino, 1965) è scrittore, saggista e traduttore. Ha pubblicato una quindicina di romanzi e molti saggi di costume, le sue opere sono state tradotte in una dozzina di lingue e dal romanzo “Il paese delle meraviglie nel 2007 è stato tratto un film di successo”. Collabora da venticinque anni con l’inserto Tuttolibri de La Stampa e con il settimanale TorinoSette, ha diretto per svariati anni alcune sezioni del Salone del Libro di Torino e ha pubblicato con i maggiori editori italiani (Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Laterza, Einaudi, Garzanti). È uno degli intellettuali di punta di Torino, molto conosciuto e apprezzato a livello nazionale.
Lo si potrebbe etichettare come un perfetto esemplare dell’establishment culturale italiano, un mondo dove tutti si conoscono, pochi si amano e/o apprezzano, quasi tutti si danno una mano per restare a galla nell’editoria che conta. Gli ultimi due libri di Culicchia, tuttavia, hanno spiazzato questo ambiente. Dapprima “E finsero felici e contenti” (Feltrinelli, 2020), che recava un esplicito sottotitolo: “Dizionario delle nostre ipocrisie” e faceva pelo e contropelo alla cultura del politicamente corretto. E poi il recente “Il tempo di vivere con te” (Mondadori) nel quale l’autore affronta uno dei tabù della cultura (ma potremmo dire della storia) del nostro Paese: il terrorismo e gli Anni di Piombo. E lo fa con un personalissimo, umanissimo e tenerissimo “memoir” nel quale ricorda il cugino Walter Alasia, giovane brigatista ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia nel 1976, quando Giuseppe Culicchia aveva undici anni e non sapeva nulla della doppia vita di quell’amatissimo cugino, il fratello maggiore che non ha mai avuto. Dopo questi due libri, ma forse è solo una velenosa impressione di chi scrive, negli ambienti di cui sopra Culicchia viene guardato con malcelato sospetto. Barbadillo l’ha incontrato per un’intervista di quelle che piacciono a noi, senza tanti infingimenti né birignao.

Il tuo ultimo libro, “Il tempo di vivere con te” ha suscitato molto interesse, parecchie discussioni e anche una discreta scia di polemiche. A più di quattro mesi dalla sua uscita, qual è il tuo bilancio personale?

«Il fatto che un libro faccia discutere è sempre comunque positivo. Sono davvero tantissimi i lettori che mi hanno scritto, ringraziandomi per avere raccontato attraverso la figura di Walter anche un periodo della nostra storia che finora era stato considerato in modo direi dogmatico. Ho apprezzato moltissimo la lettura del libro che è stata fatta da Giorgio Bazzega, il figlio di Sergio, uno dei due funzionari di polizia uccisi quella mattina di dicembre da Walter, che mi ha ringraziato per avergli fatto comprendere chi era Walter come persona, prima che la sua figura venisse cristallizzata nell’istante in cui sparò a suo padre e a Vittorio Padovani. Tra coloro che mi hanno scritto c’è stato un ex agente della Digos, che mi ha detto di essere rimasto colpito per l’onestà con cui avevo raccontato Walter. E anche il fratello di uno dei componenti della scorta di Aldo Moro ha voluto dirmi che il libro era a suo giudizio equilibrato. Da parte mia ho cercato di restituire a Walter la sua identità di ragazzo, e di capire quali potessero essere state le motivazioni che lo avevano spinto a lasciare Lotta Continua per entrare nelle Brigate Rosse. Nel libro non c’è una mia parola che giustifichi ciò che accadde quella mattina: Walter non ha solo ucciso due persone, ma ha fatto due vedove e degli orfani, e sua madre Ada è morta di crepacuore a distanza di otto anni, anni in cui andava al cimitero ogni giorno a trovare quel figlio tanto amato che, dopo avere ucciso, era stato ucciso a sua volta nel cortile di casa, lì dove lei lo aveva visto giocare quando era bambino. Per tornare alla tua domanda, la cosa che mi ha fatto riflettere riguardo alle polemiche è che siano venute da sinistra, e che mi sia stata rivolta l’accusa di non avere condannato Walter: avrei dovuto scrivere un ultimo capitolo e definirlo come usa in questi casi semplicemente un criminale, un terrorista, un mostro. Ma se ho cominciato a scrivere tanti anni fa è stato proprio per scrivere questo libro e raccontare come Walter non sia stato soltanto un criminale o un terrorista, e tanto meno un mostro. I mostri sono una comoda via di fuga. Ci rassicurano. È molto più difficile prendere atto che invece non esistono, e che casomai ci sono persone, nostri simili, che per un motivo o per l’altro commettono atti mostruosi. Sia come sia, come dicevo se un libro fa discutere è perché smuove qualcosa. E credo che il nostro Paese abbia un gran bisogno di interrogarsi su quegli anni, ma non solo su quelli».

È un libro nel quale prevalgono le memorie familiari, l’aspetto umano e i ricordi di un bambino che stravedeva per il cugino più grande, eppure alcuni l’hanno criticato accusandoti di voler riscrivere la storia di quegli anni violenti, forse persino di voler riabilitare il terrorismo.

«Francamente credo che chi ha voluto vedere nelle mie pagine una giustificazione o un’esaltazione di Walter lo abbia fatto in malafede. Ho raccontato un cugino che per me era un fratello maggiore con gli occhi del bambino che ero, cercando di comprendere dal punto di vista dell’adulto che sono oggi che cosa spinse quel ragazzo che non prendeva niente sul serio a prendere sul serio l’idea che in Italia la rivoluzione fosse dietro l’angolo, e a impugnare una pistola. Mario Calabresi ha scritto che il mio è “un libro sbagliato”. Cesare Martinetti lo ha definito “scabroso”. È intervenuto perfino Luciano Violante, che all’epoca in cui divenne Presidente della Camera fece il famoso discorso in cui disse che bisognava cercare di capire i ragazzi e le ragazze che nel 1943 avevano scelto di battersi per la Repubblica Sociale Italiana, e che proprio per questo era a sua volta stato accusato di giustificare quella scelta. In più di un’intervista ribatté alle critiche dicendo che cercare di comprendere non significa giustificare. Ma evidentemente cercare di capire il brigatista Walter Alasia non è consentito: meglio ritenere lombrosianamente che fosse nato criminale, che la sua scelta fosse dettata semplicemente dal fatto di essere nato criminale, e che da criminale abbia concluso la sua esistenza. Comunque: se ho cominciato a scrivere, molti anni fa, è stato per riuscire un giorno a raccontare chi era Walter, il ragazzo che è stato prima di quel 15 dicembre 1976. Se ho impiegato tanto tempo per riuscirci è perché a Walter ero legatissimo. Con lui ho vissuto i giorni più belli della mia infanzia, che di fatto è finita quel giorno, quando tornando da scuola trovai la mia famiglia in lacrime davanti alla tv. Lui aveva 20 anni, io 11. Per mio padre e per mia madre Walter era come un figlio, per me e mia sorella un fratello. Anche se viveva coi miei zii a Sesto San Giovanni, ogni anno trascorreva l’estate in Piemonte, e anziché stare nella casa dei nonni ereditata da sua madre veniva a stare da noi, che non avevamo neppure una stanza per gli ospiti. Si adattava a dormire su un divano troppo corto per il suo metro e ottanta, ci aiutava a imbiancare la casa, era sempre pronto ad assecondare le mie richieste, a disegnare per me i personaggi dei fumetti che amavo, correre, giocare, tutto. Quando ripartiva, piangevo per giorni. Non vedevo l’ora che tornasse. Walter Alasia era anche questo. A condannarlo ci hanno pensato la Storia e la pallottola che gli ha fermato il cuore».

In questi ultimi anni, ancor più che in precedenza, sembra diventato impossibile riscrivere o ripensare la nostra storia nazionale: succede con il fascismo e la “guerra civile” finita da oltre 75 anni; e ora vediamo che persino sull’epoca del terrorismo, dalla quale ci dividono ormai circa 45 anni, non c’è spazio per “altre” verità. O anche solo altre ricostruzioni. Il mio parere personale è che ci siano sempre più “vestali” autonominate che difendono una versione univoca e dogmatica della storia, mi piacerebbe sapere che cosa ne pensi tu.

«Io penso, come accennavo prima, che il nostro Paese abbia un gran bisogno di guardarsi allo specchio e di andare oltre alle versioni di comodo. Penso che la storia della nostra Repubblica inizi con una strage, quella del 1° Maggio 1947 a Portella della Ginestra, e che la scia di sangue arrivi fino alla bomba che sempre in Sicilia mise fine alla vita di Paolo Borsellino, passando per piazza Fontana, piazza della Loggia, l’Italicus, Bologna, Ustica, ma anche per Acca Larentia e per il rogo di Primavalle. Penso che per quanto riguarda quello che Sciascia definì “l’affaire Moro” ancora oggi l’ex Presidente del Consiglio Romano Prodi dice di avere saputo il nome Gradoli nel corso di una seduta spiritica. Penso che la posizione geopolitica dell’Italia, un Paese del blocco occidentale che aveva il partito comunista più forte d’Europa, confinava con la Jugoslavia di Tito e si protendeva per giunta nel Mediterraneo essendo di conseguenza naturalmente portato a dialogare con i Paesi arabi del Nordafrica e del Medio Oriente, ricchi di materie prime, abbia fatto sì che sul nostro suolo si sia combattuta una sorta di guerra asimmetrica, e che la generazione che si è trovata ad avere vent’anni negli anni Settanta sia stata al centro di un vortice di violenza in cui si coagulavano molte cose. C’era la lotta di classe, certo, arrivata dopo la fine del Boom con il Sessantotto e le proteste di studenti e operai, e in parallelo la replica in sedicesimo di quella che una ventina di anni più tardi lo storico Claudio Pavone definì con grande scandalo la Guerra Civile del biennio 1943-1945. E dire che durante gli scontri di Valle Giulia, in un primo momento gli studenti di destra e di sinistra avevano manifestato assieme: salvo poi dover prendere atto della scelta di Almirante che, schierandosi con le istituzioni, provocò inevitabilmente la spaccatura che doveva portare agli omicidi politici degli anni successivi, a cominciare da quelli di Sergio Ramelli da una parte e di Claudio Varalli dall’altra. Fu così che figli della generazione che aveva scelto la Resistenza o la Repubblica Sociale Italiana si ritrovarono a replicare quel conflitto fratricida pur avendo in comune la radicale presa di posizione contro lo Stato, in un periodo storico in cui, come scrisse Pasolini sul Corriere della Sera, l’espressione “strage di Stato” era diventata un luogo comune e la collusione tra mafie e settori della politica era già sotto gli occhi di tutti. Ma insieme con tutto questo c’erano anche gli interessi inconfessabili di potenze straniere, a partire dal fatto che il compromesso storico portato avanti da Moro non stava bene né agli USA né all’URSS. Così, anche a distanza di decenni certe verità in Italia restano indicibili: a cominciare dal modo in cui morì Giuseppe Pinelli e dal motivo per cui alte cariche dello Stato, e in particolare le figure apicali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, si rifiutarono di trattare per il rilascio di Aldo Moro – il solo a battersi a certi livelli per questa soluzione, va ricordato, fu Bettino Craxi. Per tacere della liberazione di Ciro Cirillo, a sua volta rapito dalle Brigate Rosse, che ottennero il riscatto in barba a quel “fronte della fermezza” che appena tre anni prima aveva di fatto portato all’omicidio di Aldo Moro. Ma in tutto questo non va dimenticato che ci furono altri giovani a perdere la vita perché da parte loro avevano invece scelto di indossare una divisa, fosse perché credevano profondamente nei valori della Costituzione o perché privi di altre prospettive lavorative: e il rimosso collettivo che va sotto il nome di Anni di Piombo, anni non dimentichiamolo segnati anche di depistaggi e manovre oscure, riguarda anche loro. A ogni anniversario si rende omaggio alle vittime illustri, ma i nomi di chi venne ucciso perché faceva parte di questa o quella scorta se li ricordano davvero in pochi».

Nel libro avanzi l’ipotesi, già nota e già scritta da alcuni giornali dell’epoca, che tuo cugino sia stato “finito” dalla polizia quando ormai era ferito e disarmato. In quegli stessi anni episodi simili si sono verificati con terroristi di destra e sono abbastanza noti i casi di tortura per estorcere informazioni ai danni di brigatisti rossi arrestati. Eppure sembra che ancor oggi mettere in dubbio la correttezza dello Stato nella lotta al terrorismo equivalga a difendere la posizione degli eversori. Perché? Nel 2021 non c’è ancora spazio per ricostruzioni storiche e giornalistiche più distaccate e neutrali?

«Questo fa parte della versione univoca di cui parlavi prima. La morte in carcere dell’anarchico Franco Serantini fu, con quella di Giuseppe Pinelli nel cortile della questura di Milano, alla radice della scelta di Walter e di altri ragazzi come lui. Di torture ha scritto anche Pierluigi Concutelli nel suo “Io, l’uomo nero”. Di nuovo si tratta di verità indicibili, basti pensare alla sentenza che definì un malore attivo ciò che aveva provocato la caduta di Pinelli dal quarto piano di via Fatebenefratelli, e al fatto che il reato di tortura sia stato introdotto in Italia solo di recente e solo in seguito a una pressione in tal senso da parte dell’Europa. Da quanto ho potuto ricostruire dalle testimonianze dell’epoca, Walter, che era stato ferito alle gambe con due proiettili nel suo tentativo di fuga, non si alzò in piedi per sparare ai soccorritori dell’ambulanza, così come venne dichiarato dalla questura ai giornali. I due barellieri, che nell’appartamento dei genitori di Walter sentirono dei colpi provenienti dal cortile che però non fecero pensare loro a una sparatoria, lo trovarono a terra con un colpo al cuore, così come rilevato dall’autopsia. E il poliziotto che li accompagnava, quando uno di loro disse che forse Walter poteva ancora essere salvato perché una vena pulsava ancora, disse che se non era ancora morto lo avrebbe finito lui. Mia zia sentì Walter invocare “Aiuto, mamma” dopo il ferimento alle gambe, ma le fu impedito di muoversi dal divano del soggiorno per andare a vedere suo figlio. Ciò detto, chi scrive deve sempre cercare di mettersi nei panni dei suoi personaggi. E anche se in questo caso non ho scritto un romanzo ma un memoir, posso – devo – cercare di mettermi nei panni del poliziotto che quella mattina, anziché consegnare Walter alla giustizia, stando alle ricostruzioni che all’epoca dei fatti vennero ignorate dai principali organi di informazione, si fece giustizia da solo. Forse lo fece perché a Sergio Bazzega e Vittorio Padovani era legato da amicizia, da affetto, non solo da stima professionale; e di nuovo credo sia necessario sforzarsi di capire, il che come detto non significa giustificare, perché in uno stato che si definisce democratico chi infrange la legge anche in modo tanto grave, uccidendo due uomini delle istituzioni, dovrebbe avere diritto a un processo anziché venire giustiziato. Walter era stato individuato da tempo, era pedinato, il telefono di casa Alasia era sotto controllo. Lo si sarebbe potuto arrestare senza spargimento di sangue, quando andava in edicola a comprare i giornali. Comunque: resta impressionante, a distanza di tanto tempo, il fatto che ora come allora non vi sia modo di parlare di quegli anni se non attraverso la lente che sappiamo. I buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Il che è certo rassicurante, specie se si fa parte dei buoni, ma anche un po’ ipocrita. Non si tratta di “mettere tutti sullo stesso piano, vittime e carnefici”, come si usa dire a proposito di queste cose, ma di prendere atto che ciascuno di quei morti era una persona. Una persona, non un simbolo positivo o negativo, a seconda dei punti di vista e delle convinzioni».

Nei mesi scorsi, girando per presentare il libro, ti sei incontrato più volte con il figlio del maresciallo Sergio Bazzega, uno dei due poliziotti uccisi da tuo cugino Walter nello scontro a fuoco di Sesto San Giovanni. Vorrei chiederti per prima cosa una riflessione personale su questa esperienza; e poi, più in generale, se tra i familiari delle vittime degli Anni di Piombo, terroristi compresi, è possibile tentare una riconciliazione.

«Incontrare Giorgio Bazzega è stato per me molto bello e molto doloroso, perché lui aveva due anni quando Walter uccise suo padre. Gorgio mi ha raccontato che suo padre aveva detto a sua madre, sposandola: “Sposo te perché so che se mi succedesse qualcosa sarai capace di crescere i nostri figli da sola”. Sono parole che mi hanno profondamente commosso. Sergio Bazzega all’epoca si batteva per la democratizzazione della polizia, gli amici in questura lo chiamavano per scherzo “il comunista”. Era semplicemente un uomo che credeva nei valori della Costituzione. Giorgio è un ragazzo straordinario. Dopo una vita passata a odiare, è riuscito a liberarsi da quel sentimento, e ha deciso di cercare di capire chi fosse il ragazzo che lo ha privato del padre. Quando mi ha ringraziato perché finalmente lo aveva trovato nelle mie pagine, ho pianto. Il dolore che ha segnato le nostre vite di congiunti di persone che hanno perso la vita in quegli anni ci accomuna, come ci accomuna la volontà di capire e di confrontarci. Credo che come il perdono, la riconciliazione sia un qualcosa di molto intimo e personale, perché chi ha perso una persona che amava continua a sentirne la mancanza: certe figure sono insostituibili, e non è vero che il tempo aiuti a lenire il dolore. Il tempo non fa che sottrarre, allontanarci sempre di più dai nostri cari, e noi continuiamo a parlare con i nostri morti anche se ormai sono passati così tanti anni dalla loro scomparsa. Comunque: mai nella vita mi sarei immaginato di incontrare Giorgio, e il fatto che sia accaduto è per me la cosa più importante e bella che potessi sperare scrivendo “Il tempo di vivere con te”. Direi che dà un senso compiuto a tutto il mio lavoro di scrittura».

Pochi giorni fa sul tuo profilo Instagram ho visto che hai postato una foto di Pasolini accompagnata da questa frase: «Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le nuove parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra». Meglio di Nostradamus, si potrebbe scherzare. Tu hai tradotto “Bianco” di Bret Easton Ellis e hai scritto un volume dedicato alla dittatura del “politicamente corretto”, quindi è un tema che conosci bene: aveva ragione Pasolini?

«Pasolini ha scritto molte pagine profetiche, soprattutto riguardo all’omologazione che lui vedeva già nei giovani del suo tempo, bersagli del consumismo destinati a perdere la loro identità. Oggi parlare di identità è considerato legittimo solo se questa è “fluida”, oppure se si tratta di rivendicare la propria identità di afrodiscendenti o di appartenenti a una qualche minoranza. Il che è certo comprensibile, perché chi da sempre è stato in un modo o nell’altro discriminato è determinato a far valere le proprie ragioni. Ma combattere le discriminazioni con altre discriminazioni, l’intolleranza con altra intolleranza, non credo porti lontano. Purtroppo i social, che in realtà sono sempre più antisocial, hanno contribuito a semplificare e polarizzare ogni discussione. Con effetti paradossali: vedi la cacciata di Martina Navratilova da un’associazione di atlete Lgbt per aver detto che era folle e ingiusto giocare contro tenniste transgender per via della loro muscolatura biologicamente maschile, proprio lei che si era dichiarata lesbica fin dagli anni Ottanta e si era sposata nel 2014 con la storica compagna Julia Lemigova; o le polemiche suscitate da Domenico Dolce e Stefano Gabbana per aver dichiarato di non essere favorevoli ai bambini nati con la procedura dell’utero in affitto e dati in adozione a coppie omosessuali. C’è peraltro da dire che è impressionante come a sinistra sia praticamente scomparso, nel corso delle varie trasformazioni del Pci all’indomani della caduta del Muro, il tema dei diritti dei lavoratori; del resto dobbiamo l’introduzione del precariato al primo governo Prodi, con l’attuazione del famoso “pacchetto Treu”. Da lì in poi la discesa è stata inarrestabile, vedi i contratti a chiamata e le odierne forme di cottimo. Ecco: quella che un tempo era la sinistra, abbracciando la globalizzazione e le politiche liberiste, ha smesso di occuparsi di un proletariato che oggi spesso corrisponde a quella che una volta era la classe media ma adesso si rivolge alla Caritas, e ha preferito puntare l’attenzione sui diritti civili: la rappresentazione plastica di tutto questo è incarnata dall’ultimo Primo Maggio, in cui in seguito ai noti fatti si è parlato solo di DDL Zan e non di morti sul lavoro o del fatto che centinaia di migliaia di posti sono a rischio, mentre la disoccupazione ha raggiunto cifre impressionanti e i giovani preferiscono – potendo – espatriare piuttosto che accettare stage da 600 Euro al mese per 40 ore lavorative, quando va bene. Un Paese che pregiudica ai giovani la possibilità di progettare un futuro non ha esso stesso un futuro. Poi ci si lagna della bassa natalità e ci s’indigna perché i corrieri sono costretti a liberare la vescica nelle bottiglie. Anche qui, l’ipocrisia non manca. La cosa che non cessa di sorprendermi, in tutto questo, è l’intolleranza di chi si professa tollerante. Ma non si tratta di una grande novità, almeno nel nostro Paese, dove da sempre non esistono avversari ma solo nemici: da appendere a testa in giù».

Giorgio Ballario

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