“Vi racconto l’architettura del Ventennio a Bari e in Italia”

Un viaggio nelle realizzazioni urbanistiche durante il fascismo curato dal giovane studioso, Simone De Bartolo, autore di un saggio per L'Arco e la corte editore

Il volume di Simone De Bartolo

Intervista di Michele Salomone all’architetto e storico dell’arte, Simone De Bartolo, che si dedica allo studio dell’architettura del Ventennio fascista. Intensa e variegata la sua produzione culturale. Ha pubblicato diversi studi di storia dell’architettura in Puglia (1).  Da pochi giorni è in libreria l’ultima sua fatica, ‘Bari. Itinerari del Ventennio’, edizioni ‘L’Arco e la Corte’, con prefazione di Manlio Triggiani.

Prima di esaminare il suo ultimo libro, le chiedo quali sono le radici dell’architettura fascista e chi fu l’ideatore?

“È una domanda molto difficile, nel senso che è una questione controversa (non vi è unanimità nella critica). In estrema sintesi, e al netto di questioni teoriche spesso capziose, con “architettura fascista” s’intende l’architettura “ufficiale” del Regime, e quindi, per estensione, tutta l’architettura che si conforma a tale stile, talvolta chiamato anche “stile littorio”. Il “deus ex machina” fu Marcello Piacentini, architetto di formazione eclettica (suo padre Pio fu tra quelli che avevano lavorato nel cantiere dell’Altare della Patria): dalla Casa Madre dei Mutilati, di stile neorinascimentale giunge al razionalismo “moderato” (ossia il “Razionalismo italiano”, che non è lo stesso razionalismo di un Le Corbusier) della Città Universitaria e dell’Eur (tutte opere romane), anche se in questi ultimi casi assume perlopiù il ruolo di supervisore, soprattutto apportando “correzioni” al lavoro altrui. Il comun denominatore è il riferimento agli esempi della grande Tradizione Italiana (classica e rinascimentale), sicché si definisce lo stile piacentiniano anche come “classicismo semplificato”; un esempio di tale stile a Bari sono i due edifici del romano Carlo Vannoni, che di Piacentini era stato allievo: il Palazzo delle Finanze e quello delle Opere Pubbliche”.

La Casa del Mutilato di Bari

Da studioso cosa ha riscontrato di positivo e di negativo nell’architettura del Ventennio?

“Molti critici parlano dell’architettura del Ventennio come di una “mascherata” fatta per “nascondere i problemi reali”, e vorrei chiedere a questi signori se i “problemi reali” si risolvono costruendo ecomostri e case di cartone. È ovvio che “età dell’oro” non ne sono mai esistite nella storia dell’umanità, e chi le promette nel futuro (magari all’insegna di parole vuote come “eguaglianza” e “progresso”) è solo un ciarlatano e un visionario. Si pensi al Teatro Margherita a Bari, che nel Ventennio molti avrebbero voluto demolirlo, per recuperare la vista del mare, eppure è ancora al suo posto. E per fortuna! Nel bene e nel male, l’Architettura è stata sempre espressione di Civiltà, mentre oggigiorno prevale una visione modaiola, col suo corollario di “archi-star” veri e propri “stilisti di edifici firmati”. L’Architettura del Ventennio è l’ultima ad avere una propria identità riconoscibile, un suo “stile”; dopo, solo il nulla, espressione del vuoto spirituale che ci circonda”.

Quando nel settembre 1934 Mussolini viene in visita a Bari per inaugurare la Fiera del Levante, in particolare le Caserme sui lungomare Vittorio Veneto e Nazario Sauro sono in fase di esecuzione. Alcune di queste, meno di un anno, saranno già belle e pronte, basti pensare al Palazzo Aeronautica inaugurato nel luglio 1935. A cosa si deve tanta rapidità?

“Mi chiederei piuttosto a che cosa si debba la lentezza attuale, visto che i nostri nonni credevano che nel 2000 avremmo viaggiato su macchine volanti (!). Senza dubbio v’era all’epoca una “volontà del fare”, della quale Araldo Di Crollalanza fu “uomo simbolo”, volontà che non si vede nell’Italia attuale (ormai succube di interessi stranieri); ma credo, soprattutto, per via dell’elefantiasi burocratica che affligge il Paese, paralizzandone gli slanci creativi e produttivi. In una dittatura, le decisioni vengono rapidamente imposte dall’alto: il che, naturalmente, può produrre esiti negativi, ma, per converso, rende più celere ogni processo decisionale”.

 Come venivano finanziate le opere?

“Non è un argomento che ho approfondito, essendomi (come è mia consuetudine) soffermato sugli aspetti artistici, non su quelli economici. Sarebbe interessante un libro incentrato sul tema, ma lascerei l’incombenza ad uno specialista in Economia e Scienze Politiche. Fatta questa premessa, è comunque fuor di dubbio che si trattò perlopiù d’investimenti di capitale pubblico, nel quadro di un sistema economico che, pur non avendo nulla a che spartire con la rigida pianificazione economica sovietica, era senz’altro un sistema economico dirigista, il cosiddetto “corporativismo” (che taluni asseriscono dipendere dalla dottrina economica keynesiana, ma anche questo esula dal mio campo d’interesse). Ogni ente statale si costruiva da sé le proprie sedi, solitamente progettate dai capi dei rispettivi uffici tecnici: è il caso dell’ingegner Baffa, che progettò il Palazzo della Provincia, affiancato da Saverio Dioguardi per la parte artistica. Esistevano poi casi peculiari, come le Cooperative Edilizie ed i Consorzi di Bonifica, in cui era massiccia la partecipazione di ex Combattenti: le cooperative edilizie (a Bari se ne erano costituite varie, come la Domus, l’Azzurra, la Teodoro Massa, la Aedis) erano fatte da privati, ma godevano di importanti agevolazioni statali”.

 Nel capoluogo pugliese, a livello politico, istituzionale ed imprenditoriale chi furono i maggiori sponsorizzatori delle opere?

“Araldo Di Crollalanza fu certamente il massimo “sponsor” a livello politico, dapprima come podestà poi come ministro, ma non dobbiamo dimenticare il Capo del Governo: in particolare, l’istituzione della R. Università Adriatica fu fortemente voluta da Mussolini in persona, col pieno sostegno del Ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile (e nonostante l’opposizione di esponenti del fascismo napoletano, che vedevano in essa una diminutio dell’Università partenopea). A livello istituzionale, oltre a Don Araldo non dobbiamo dimenticare i suoi successori, Vincenzo Vella e Michele Viterbo (che fu anche storico e letterato di valore, firmandosi solitamente con lo pseudonimo di “Peucezio”). Se poi parliamo di chi ha “messo i soldi”, non possiamo dimenticare Cesare Diomede Fresa, il vice-podestà che è passato alla storia di Bari per la sua attività di filantropo: fu lui a volere l’Asilo Vincenzo Diomede Fresa, finanziandone la costruzione di tasca propria; la struttura è dedicata alla memoria del figlio. Ma il livello imprenditoriale vede muoversi anche altri attori, tra i quali spicca Saverio Dioguardi: una figura eccezionale, in quanto non solo fu architetto-artista a pieno titolo, ma fu anche imprenditore, titolare dell’impresa di costruzioni di famiglia, una solida tradizione imprenditoriale barese di cui Gianfranco Dioguardi è il degno erede attuale”.

In ambito cittadino vi furono urbanisti che avversarono l’architettura fascista? 

È necessaria una premessa: il politologo Domenico Fisichella ci insegna che quello fascista, lungi dall’essere “totalitario”, è un regime “pluralista” sebbene a partito unico. Brevibus verbis, esistevano altri poteri che, pur nel formale ossequio al PNF (ma più che altro alla persona di Mussolini), godevano di margini di autonomia: l’esempio più eclatante è la Chiesa, che non fu ridotta al silenzio come avvenne in Germania o peggio ancora in URSS. Fatta questa premessa, e quindi accertato il fatto che il dibattito c’era eccome (in tutti i campi), bisogna analizzare la domanda, considerando che l’urbanistica, così come la intendiamo oggi, era appena stata introdotta come disciplina nei curricula accademici: tuttavia, molti professionisti del settore (architetti e ingegneri), si occupavano di questioni urbane. Se parliamo poi di “avversione per l’architettura fascista”, in senso proprio, non ve ne fu affatto: dal neoclassicismo al Liberty, passando per il neomedievale, molti stili si erano succeduti a Bari, ed anche lo “stile littorio” fece il suo ingresso in città senza molte riserve (più che altro, vi furono delle “resistenze culturali” dovute al mancato “aggiornamento” dei progettisti locali, ancora legati all’Eclettismo e al Liberty dell’anteguerra). Piuttosto, vi erano delle gelosie professionali: i tecnici locali mal sopportavano la concorrenza degli architetti romani, che in Puglia “spadroneggiavano”; basti pensare a Taranto e Foggia, dove tutti gli edifici più prestigiosi sono appannaggio di architetti romani (Piacentini, Bazzani, Brasini, Vannoni). A Bari avevamo un professionista del calibro di Saverio Dioguardi che riuscì a tener testa alla “concorrenza romana” in più di un’occasione”.

Vi sono state delle intellettualità antifasciste che, a livello nazionale ed internazionale, hanno espresso apprezzamento per l’architettura del Ventennio?  

“Sì e no. Mi spiego meglio. Il noto critico d’architettura Bruno Zevi (antifascista)  ha espresso notevole apprezzamento per edifici come la Casa del Fascio di Como di Giuseppe Terragni, che indubbiamente è “fascista” sia per l’epoca in cui fu costruita che per la destinazione d’uso: però per Zevi tale “Casa del Fascio” sarebbe un edificio “antifascista” (!). Tale atteggiamento è costume diffuso tra gli “intellettuali antifascisti”: tutto ciò che è conforme al loro modo di pensare è “antifascista”, mentre ciò che non lo è diviene ipso facto “fascista”; infatti, secondo un noto aforisma zeviano, chi ama la simmetria classica “o è un fascista o è un latente omosessuale” (e forse oggi Zevi, come Fedez, accuserebbe chi non la pensa come lui anche di “omofobia”)”.

Con la fine del Fascismo sono di più le opere sopravvissute o quelle andate distrutte?  In tal caso parliamo non solo di costruzioni, ma soprattutto di monumenti, busti, statue. In pratica, cosa è andato disperso e in quale misura?

“Difficile quantificare in maniera esatta. Nel complesso, come costruzioni è sopravvissuto molto, semplicemente perché nell’Italia del dopoguerra sarebbe stato troppo antieconomico buttar giù interi quartieri, quando già c’era fin troppo da ricostruire per via delle bombe dei “liberatori”. Un caso emblematico è quello dell’Olimpiade di Roma del 1960: non solo furono riutilizzati gli impianti del Foro Mussolini (rinominato Foro Italico), ma fu anche ultimata la costruzione del quartiere Eur, perché sarebbe stato troppo dispendioso rifar tutto daccapo. Se invece parliamo delle “Arti sorelle” dell’Architettura, le perdite sono più estese: le vittime della “damnatio memoriae artistica antifascista” potrebbero riempire parecchi volumi, l’elenco sarebbe interminabile. A Bari una vittima illustre è stato l’altorilievo di Omero Taddeini nella facciata della Caserma Italia della MVSN (è stato difficile riuscire a reperire una foto d’epoca che lo mostrasse integro), ed è un vero peccato, specialmente se pensiamo che a Forlì sono fiorite, negli ultimi anni, parecchie iniziative culturali volte al restauro ed alla rivalutazione di un simile patrimonio, con ricadute positive anche sul turismo”.

Quanto c’è di vero e quanto di propagandistico circa l’impiego obbligato del marmo di Carrara, all’epoca in crisi, nelle realizzazioni degli edifici pubblici del Ventennio? Pare che fu lo stesso Mussolini ad avere tale idea.

“Vi è qualcosa di vero, ma l’idea non fu affatto di Mussolini, bensì del suo ministro Renato Ricci, che era carrarese: fu proprio Ricci a volere l’erezione del famoso “Obelisco Dux” o “Monolito Mussolini” al Foro Italico, un enorme blocco in marmo di Carrara (il Duce acconsentì, lusingato dell’omaggio). Del resto, in età liberale, il bresciano Giuseppe Zanardelli aveva preteso il botticino di Brescia per l’Altare della Patria. Tornando in Puglia, fu il gallipolino Achille Starace ad incentivare la tabacchicoltura nel suo Salento. Erano cose normali, per quei tempi. Oggigiorno, al contrario, sembra che chi va a Roma si dimentichi completamente del paese d’origine, pensando unicamente a terminare la legislatura per ottenere il sospirato vitalizio”.

Cosa lascia ai posteri l’Architettura del Ventennio?

“Sicuramente la solidità, l’utilità e la bellezza, il che non è poco, se consideriamo che per il trattatista romano Vitruvio l’Architettura si fonda essenzialmente su questa triade, detta appunto “triade vitruviana” (firmitas, utilitas, venustas). Ma anche la testimonianza di un’epoca, un’epoca senz’altro difficile, ma che andrebbe ben compresa. Ogni comunità nazionale dovrebbe trarre ammaestramenti dal proprio passato, rielaborandolo; ma ormai siamo diventati “un popolo senza antenati né posteri”, per dirla con Ennio Flaiano”.

 Vuole raccontare, specie ai più giovani, il ruolo svolto dall’allora Ministro dei   Lavori Pubblici, Araldo Di Crollalanza, riguardo il terremoto che nel 1930 colpì il Vulture e il significato della sua figura storica?  

“In quella situazione di emergenza, Mussolini affidò la ricostruzione ad Araldo Di Crollalanza, che vi riuscì in tempi rapidissimi: in appena tre mesi, entro il 28 ottobre 1930, vennero ultimati 3.746 nuovi alloggi (in 961 case) ai terremotati e recuperate circa 7.000 case, delle quali 5.190 a spese dello Stato. Un successo non solo in termini immediati ma anche in una prospettiva di lungo periodo, in quanto quelle stesse case furono in grado di resistere indenni, mezzo secolo dopo, al terremoto altrettanto devastante dell’Irpinia. Innumerevoli furono le benemerenze di quest’uomo, e non potrei trovare parole migliori di quelle con cui l’ha eternato per i posteri il decano dei giornalisti italiani, Indro Montanelli: “L’uomo che aveva costruito città e province, non aveva una casa, né un palmo di terra, né un conto in banca””.

*Bari. Itinerari del Ventennio, edizioni L’Arco e la Corte, 2021, pagg. 134,  17.00 euro

Dello stesso autore per le edizioni L’Arco e la Corte: L’ architettura del ventennio fascista a Bari; Architettura e scultura monumentale del ventennio fascista in terra di Bari;  Architettura e scultura monumentale del ventennio a Foggia e in Capitanata; Architettura e scultura monumentale del ventennio a Taranto e provincia;  Bari ‘900 tra eclettismo e liberty, quest’ultimo per la LB edizioni di Bari.

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Michele Salomone

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