Giornale di Bordo. Perché non convince la parabola trap di Sanremo

"Aridatece Nunzio Filogamo": il commento del prof. Enrico Nistri sulla kermesse della musica italiana diretta da Amadeus

Un cantante trap a Sanremo

Ho scelto di contare fino a cinque (giorni) prima di parlare del Festival di Sanremo, per evitare di scrivere d’impulso, sull’onda della repulsione estetica e fonetica, prima ancora che etica, a un certo modo di fare musica e televisione. Non sono un bigotto e non penso che l’omosessualità debba costituire motivo di discriminazione, come, secondo alcune fonti, lo sarebbe stata nei confronti del primo presentatore del Festival, Nunzio Filogamo, tollerato alla radio, ma emarginato in Tv per il suo aspetto poco virile, su cui per altro ironizzava un grande e sfortunato imitatore come Alighiero Noschese. Ma non mi sembra che sia di buon gusto nemmeno l’ostentazione della diversità – come è di cattivo gusto, del resto, anche l’esibizione della propria virilità – e peggio ancora l’utilizzazione di un grande palcoscenico televisivo come strumento di propaganda omosessualista.

C’è tuttavia un altro e per certi aspetti più serio motivo di disagio dinanzi allo spettacolo offerto dal palcoscenico dell’Ariston: il fatto che quello che dovrebbe essere il festival della canzone italiana sia di fatto dominato da modelli musicali che di italiano non hanno quasi nulla. Rap e trap, infatti, sono mode provenienti non solo dall’America, ma dagli strati più bassi della società statunitense, e riflettono una musicalità estranea alle tradizioni non solo italiane, ma occidentali. I (t)rapper cantano, se così può dirsi, in italiano, ma pensano come un afroamericano dei ghetti “neri” di New York; sono per certi aspetti l’equivalente sonoro dei graffitari, emuli anch’essi di una moda proveniente dagli Usa subito promossa ad arte di strada. Non imbrattano i muri: si limitano a corrompere il gusto.

Si potrà obiettare che non si tratta di una novità: anche il jazz veniva dagli Stati Uniti, e lo stesso può dirsi del rock. Ma la differenza specifica fra il (t)rap e i precedenti è che i seguaci della nuova moda musicale non cantano, si limitano a recitare le loro spesso sboccate filastrocche. Sotto un certo punto di vista l’effetto del rap è stato analogo a quello provocato dall’avvento della pittura astratta. Se la moda del “concettuale” ha permesso di vendere tele anche a chi non sapeva tenere un pennello in mano, la moda del rap permette di cantare anche a chi confonde il pentagramma col pentapartito e Guido Monaco col protagonista di un film decameronico. I conduttori del festival, è vero, hanno permesso anche a cantanti della vecchia generazione di partecipare alla kermesse, ma con uno spirito analogo a quello con cui il Wwf si preoccupa di tutelare la sopravvivenza dell’orso marsicano. Resta il fatto che a Sanremo Orietta Berti non ha stonato, tanti giovani virgulti sì, rovinando con le loro cover canzoni che costituirono la colonna sonora dei nostri anni verdi.

Questo non vuol dire che non esistano bravi cantanti fra le nuove generazioni. Ci sono, ma spesso hanno successo (basti pensare al gruppo del “Volo”) più all’estero che da noi. Gli stranieri infatti chiedono all’Italia il “bel canto” – quello che ha fatto dell’italiano la lingua internazionale della musica – non squallide scopiazzature delle filastrocche afroamericane, così come vengono nel nostro Paese per ammirare i capolavori della classicità, del Medioevo, del Rinascimento e non le manzoniane “merde d’autore”.

C’è però un altro motivo per cui l’odierno Sanremo mi lascia molto perplesso: la sua trasformazione da festival della canzone in una sorta di prolisso evento paraideologico. Una volta Sanremo era con Canzonissima, abbinata alla lotteria di Capodanno, e, col Cantagiro, uno delle tre grandi manifestazioni della nostra santa trinità musicale. Negli anni Settanta fu pesantemente ridimensionato anche nel calendario televisivo, sull’onda della contestazione, ma in realtà nell’ambito di un subdolo tentativo di danneggiare la produzione musicale nazionale a tutto vantaggio di quella straniera e soprattutto statunitense: fino all’inizio di quel decennio chi voleva vendere dischi da noi doveva imparare a cantare in italiano, altrimenti erano i nostri cantanti a interpretare le loro canzoni liberamente tradotte; così Delilah di Tom Jones diveniva La nostra favola del grande Jimmy Fontana e Those were the days di Mary Opkin diventava Quelli eran giorni nell’interpretazione della Cinquetti.

A partire dagli anni Ottanta il Festival è risorto, ma a prezzo di subire un’ulteriore metamorfosi, trasformandosi in un grande psicodramma collettivo in cui le canzoni passano in secondo piano rispetto alle proteste del Fantozzi di turno timoroso di perdere il lavoro, alle costosissime “ospitate” di ex demolitori dell’Urss in bolletta, ai “messaggi” nemmeno tanto subliminali da trasmettere al pubblico. Come in un ristorante stellato, stile nouvelle cuisine, ci serve in un contenitore troppo grande (cinque serate sono troppe) una pietanza molto modesta (le canzoni vengono sempre più in secondo piano). Anche una volta Sanremo aveva una ricaduta politica. Ricordo, da liceale degli anni Settanta, le discussioni che si facevano in classe con la professoressa di filosofia sul Chi non lavora non fa l’amore” di Celentano o sulle canzoni di Sergio Endrigo, nel cui “che fatica essere uomini” c’era tutta la malinconia dell’esule (ma allora non lo sapevamo). E ricordo ancora lo scandalo di un mio compagno di scuola iscritto alla “Giovane Italia” perché nel primo successo di Dalla, 4 marzo 1943, le italiane facevano “la figura delle puttane”. Ma in primo luogo bisognava saper cantare, e chi non sapeva cantare era fuori. Perché, come diceva Guareschi, figlio della grande cultura musicale padana, il bello della diretta era che lo spettatore, comprando un posto anche in loggione, era libero di fischiare anche il più grande dei tenori, se steccava. Oggi stiamo allevando una generazione di cantanti per cui essere intonati e avere voce è un optional, e dinanzi ai quali non un Claudio Villa o una Nilla Pizzi, ma anche nomi oggi dimenticati del firmamento musicale  anni Sessanta – un Riccardo Del Turco, un Gianni Pettenati, una Carmen Villani, una Louiselle – fanno la figura di un Caruso o di una Tebaldi. A essere emarginato è chi “stecca” dal punto di vista politico, infrangendo le tavole della legge del politicamente corretto: basti pensare al caso di un Povia.

Eppure, a pensarci bene, questo Sanremo affetto da politicizzazione ed elefantiasi, a pensarci bene è il vero specchio del nostro carattere nazionale. Non è più il festival della canzone italiana, ma lo è dell’Italia: il paese in cui si può fare il ministro degli esteri senza conoscere le lingue, fare il giudice senza aver studiato il latino, fare il ministro della Difesa senza aver fatto il soldato, e naturalmente cantare senza avere voce. Il paese, insomma, dove “uno vale uno”. E pazienza se molti di quanti sono passati per il palcoscenico dell’Ariston diventeranno fra breve dei “signor nessuno”.

Nel frattempo, permettetemi di scrivere su questo muro magnetico “viva Orietta Berti!”, anche se confonde i Maneskin con i Naziskin, e “Aridatece Nunzio Filogamo”. Anche se forse era una “Filogama” e quest’anno per colpa dell’influenza cinese si sarebbe potuto rivolgere soltanto ai “cari amici lontani”.

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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