La Forza della Poesia. Pasolini tra istinto e ragione

La rubrica di Sandro Marano è dedicata al poeta friulano

Un murales dedicato a Pasolini

«è la passione
mite, virile, che rischiara
il mondo in una luce senza
impurezze, che al mondo dà le care
civili piazzette, dove ignare
rondini scatena l’innocenza»



Questi versi tratti da L’umile Italia, uno degli undici poemetti che costituiscono Le ceneri di Gramsci (1957) di Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975) – e di essi senz’altro, a nostro avviso, il più valido poeticamente – rappresentano in nuce il dramma del poeta friulano, scisso tra istinto e ragione, tra natura e storia. Da un lato ci sono le rondini, l’«umilissima voce / Dell’umile Italia», metafora dell’innocenza, dell’impermeabilità alla storia degli umili, del popolo “basso” ed emarginato, dall’altro c’è quel «nostro ardore empio» che ci porta alla necessità dell’impegno politico e morale: «È necessità il capire / e il fare. Il credersi volti / al meglio, presi da un ardire / sacrilego a scordare i morti, / a non concedersi respiro / dietro il rinnovarsi del tempo». Ma c’è qualcosa più forte di tutto, conclude il poeta, che «ci trascina indietro, al fresco, / all’arso tempo, al tempo vano, / assordato dalle vane feste / dell’umile gente, al tempo umano / al tempo allegramente terrestre, / al tempo che vive il suo incanto, / con le rondini, nel solatio / paese padano, nel fianco / dei freschi colli, e che di schianto / voi volgete, rondini, all’addio».

Lo scandalo del contraddirsi
Il poeta accetta lo scandalo del contraddirsi: «attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza» (Le ceneri di Gramsci ). Sospeso «tra un necessario impegno nella realtà del presente e il rimpianto di una condizione “edenica” perduta» (Anna Mattei), tra la luce della storia e della ragione e «le buie viscere» della propria e altrui condizione esistenziale, si chiede disperatamente nel poemetto Le ceneri di Gramsci che dà il titolo alla omonima raccolta, «ma a che serve la luce?». E soggiunge: «Ma io, con il cuore cosciente / di chi soltanto nella storia ha vita, / potrò mai più con pura passione operare, / se so che la nostra storia è finita?».
È in questa lacerante contraddizione il comunismo eretico di Pasolini, il suo rigetto del mito borghese e marxista del progresso, il suo rifiuto dell’industrialismo selvaggio e del consumismo, la sua denuncia della corruzione antropologica portata dal nuovo potere economico, il suo rimpiangere i valori della civiltà contadina. Nella sua multiforme opera saggistica, cinematografica, narrativa e poetica Pasolini recupera in qualche modo «una vena tradizionalista che lo pone in rottura con l’ortodossia marxista alla quale egli stesso, contraddittoriamente, diceva di rifarsi» (Pino Tosca, in Adsum del 7 dicembre 1997).

La poesia civile
In questo tormentato rapporto col proprio tempo, in questo suo spirito insieme “religioso” e blasfemo consiste il fascino del poeta friulano, che ce lo rende «disperatamente attuale» (Marcello Veneziani). Qui sta pure l’origine della sua poesia civile e forse anche del suo modo “arcaico” di fare poesia, del suo adottare forme desuete e del suo volgersi indietro, in contrasto con le tendenze novecentesche, ai poemetti di Pascoli e alle terzine di Dante, che ne rendono spesso poco gratificante, occorre dirlo onestamente, la lettura.
«La poesia è anche il punto problematico e dolente della sua opera, in cui sono più evidenti i suoi limiti di scrittore. […] Ma in poesia per trovare la forma giusta sembra che Pasolini non riesca a essere né abbastanza naturale né abbastanza artista. Dominato dalle sue ossessioni, scrive spesso fuori limite» (Alfonso Berardinelli, Pier Paolo, poeta senza eredi, in Il sole 24 ore, 16 marzo 2003). E non c’è dubbio che nella gran parte dei suoi poemetti, troppo lunghi e troppo discorsivi, Pasolini ha un che di tortuoso, di macchinoso, dove l’eccesso di ragionamenti finisce per prevaricare sulla resa poetica.

Il richiamo ad una «destra divina»
Per alcuni critici autorevoli, crediamo non a torto, Pasolini ha composto le sue opere migliori in dialetto friulano. E tra le pagine rimosse e dimenticate delle sue poesie friulane raccolte nel volume La nuova gioventù del 1974, non più ripubblicata – e che è un radicale rifacimento de La meglio gioventù del 1954 – c’è la sua ultima poesia, sorprendentemente dedicata a un giovane fascista con cui il poeta cerca di dialogare con accenti socratici: lo rimprovera di non avere un cuore libero da pregiudizi, ma poi lo invita a difendere le vigne, i fichi negli orti, i casali, il capo rasato dei suoi camerati, le campagne; ad avere confidenza col sole e con la pioggia; lo invita ad amare i poveri e la loro diversità; e lo esorta infine a continuare a sognare richiamandolo a quella «destra divina che è dentro di noi, nel sonno» (Saluto e augurio) e ai suoi imperativi fondanti: «difendi, conserva, prega».

Sandro Marano

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