SuperMario\17. La leggenda della lotta di Santa Giorgia Meloni contro il Drago Draghi

Franco Cardini argomenta il suo apprezzamento per le posizioni della leader di Fdi dal suo osservatorio europeo, reazionario e socialista

Mario Draghi e Giorgia Meloni

Fortuna che c’è Giorgia Meloni. In quest’orgia di conformismo e di stolida, umiliante soddisfazione per il fatto che la politica italiana non solo ha fallito, ma ha dimostrato spudoratamente di aver fatto forfait, solo una ragazzina per giunta con le stampelle (dall’alto dei miei ottant’anni e dei miei 110 chilogrammi io posso chiamarla ragazzina, anche se è una leader politica e presidentessa di un eurogruppo). Mi dispiacerebbe solo di non poterci aderire, al suo eurogruppo, se fossi europarlamentare (e per fortuna della nostra amata patria europea non lo sono): è ben noto che io non sia né un conservatore, né un riformista. Sono un reazionario e un socialista.
Ma per fortuna c’è Giorgia Meloni. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla. E vi spiego perché.
Il “Corriere della Sera” di venerdì 5 febbraio scorso ha avuto tre meriti. Anzitutto, ha inaugurato una serie di libri di medievistica da me diretta, il che è una splendida notizia per la cultura. In secundis, ha ospitato un bell’articolo del mio collega e soprattutto amico Ernesto Galli della Loggia su Il sapere che serve in politica: un po’ troppo filodraghista certo – peraltro, è in folta compagnia… – ma giustamente rigoroso nel segnalare il degrado culturale della nostra classe politica che nell’ultimo trentennio è precipitato a livelli da Quinto Mondo. In tertiis, in prima pagina quasi accanto all’articolo di Galli della Loggia c’è una bella vignetta di Giannelli che da una parte potrebbe ricordare una celebre tavola veneziana del Carpaccio e dall’altro un’acquaforte di “Don Chisciotte contro i Mulini a Vento” di Gustave Doré. Una minuscola e solitaria santa Giorgia (Meloni) al galoppo lancia in resta contro il drago Draghi. Magari, a differenza del suo santo patrono, non ce la farà a battere il rettile mostruoso. Ma, nel nome della dignità del popolo italiano, qualcuno doveva ben lanciare la sfida.
Precisiamo. Ho grande stima di Mario Draghi. È il numero uno dei tecnocrati occidentali. È intelligente, corretto, mi risulta onesto, senza dubbio di straordinaria preparazione e invidiabile competenza. È anche un personaggio colto, educato, riservato: il che, nella politica ormai abituata ai “Vaffa…” e ai toni da mercato, non guasta affatto. Del resto, lo stesso o quasi, in termini di stile, si poteva dire di Giuseppe Conte. Avere finalmente un leader che si esprime almeno in un paio di lingue oltre all’italiano ci reca sollievo, dopo alcuni mesi di appiattimento polentone, terrone e burino e di congiuntivi sgangherati.
Ma perché allora elogiare la Meloni? Per adeguatamente rispondere, richiamiamo la scena allucinante e umiliante di qualche giorno fa. La processione dei nostri politici o sedicenti tali al Colle e il loro assistere in umiliato silenzio, da scolaretti in castigo, alle parole del presidente Mattarella. Parole per molti versi sacrosante, del resto. Ma che con voce impassibile e sommessa, come se stesse parlando delle previsioni del tempo, ha annunziato in tono dimesso nella forma e devastante nella sostanza il fallimento assoluto della classe politica del paese, la sua inconsistenza, la sua inadeguatezza, la sua incapacità: insomma, l’ha definita indecorosa e impresentabile. Quindi bisognosa di un Correttore, una Guida scesa dall’Olimpo della tecnocrazia europea.
In altri termini, tanto per parlar chiaro – come i politici forse non sanno oltre a non volerlo fare: ma un impolitico della mia stregua può –, se il presidente Mattarella avesse dovuto fornire alla sua reprimenda un seguito coerente e all’altezza di essa, avrebbe obiettivamente dovuto pronunziare un Tutti a Casa (lui ne ha le prerogative), nella speranza non so peraltro fino a che punto realistica che una nuova consultazione elettorale ci regalasse un parlamento del tutto nuovo – cioè privo delle solite figure, figurette e figuracce – col quale poter ricominciare. Ma ohimè, il presidente è troppo realistico per potersi permettere il lusso della coerenza. Nuove elezioni nel contesto dell’Italia non ancora uscita dal Covid sarebbero state una rovina. Nuove elezioni, precisiamolo, in assenza di una nuova legge elettorale che metta fine alla corsa al ribasso dei candidati scelti dalle segreterie secondo il principio che debbano essere degli yesmen o delle persone abbastanza ignoranti e abbastanza corrotte in modo da obbedire a chi li ha mandati in Parlamento anziché alla propria onestà e alla propria competenza. D’altronde, per capire che a questo punto la frana rovinosa della nostra classe politica è irreversibile, basti ricordare quel che già molti anni fa, e in tempi molto meno disastrosi degli odierni, ebbe una volta ad avvertire Romano Prodi: “Attenzione, perché la nostra classe politica, per scadente che sia, è sempre meglio della nostra società civile”. Il che è verissimo: ed è proprio questo il guaio.
Il presidente quindi ha dato al nostro consesso parlamentare una bella lavata di testa, lo ha commissariato appiccicandogli un Controllore subito accolto da quasi tutti come un Messia, ma non lo ha mandato a casa: ora, visto che il numero dei parlamentari è stato diminuito e che molti di loro hanno la prospettiva di doverci comunque a breve tornare, il “governo tecnico” e “di unità nazionale” equivale praticamente a una bombola d’ossigeno.
Uno spettacolo incredibile, allucinante. Non c’era bisogno di “Striscia la Notizia” per ricordarci non solo che un governo Draghi era giudicato fino a pochi giorni fa impossibile e improponibile, ma che tra i parlamentari proprio non lo voleva nessuno. Però, si sono dovuti arrendere. In ballo ci sono i 209 miliardi. Capipartito e capicorrente debbono aver fatto il solito ragionamento: conteranno meno di prima però qualcosa sì, dal momento che il governo “tecnico” non sarà tale (nessun governo è mai puramente “tecnico”: il prossimo ancor meno degli altri) e in un’ammucchiata discorde che va dai neocomunisti alla Lega i ministeri magari saranno tenuti da tecnici o sedicenti tali, ma i posti di viceministro e di sottosegretario si moltiplicheranno e dovranno esser distribuiti a pioggia per placare la fame di tutti gli schieramenti. Con uno splendido tocco umoristico, una volta di più offertoci dal Cavalier Berlusconi che ha dato il “la” all’orwelliana definizione preventiva di “Governo dei Migliori”. L’avrete, la sfilata dei “Migliori”, fra qualche giorno. E vi dorrete che non si siano scelti i “Peggiori”.
Il copione, non lo abbiamo ancora letto. Ma chi tra noi ha buona memoria, a parte qualche ritocco per renderlo attuale, potrà immaginarselo paragonandolo al programma e all’esito dei precedenti “governi di tecnici”, presieduti tutti da un Indiscutibile padreterno. Et voilà: 1993, Ciampi, dopo la tempesta di mani Pulite; 1993, il transfuga Dini dopo il tragicomico naufragio del governo berlusconiano-leghista; 2001, Monti dopo la nuova scivolata del Cavaliere. Come andò con quei “governi tecnici”? Quali e quanti problemi risolsero? Che eredità ci lasciarono?
A parlarci chiaro, dinanzi alla solenne “lavata di capo” del presidente della Repubblica, i politici avrebbero dovuto rispondere o con generali e collettive dimissioni (compresi i pochi – qualcuno c’è – capaci e onesti) oppure con un’altrettanto generale e collettiva sollevazione. Hanno subìto, apprestandosi a sbarcar ancora il lunario e a far di tutto perché tutto cambi affinché tutto resti come prima. Arraffare quello che si può sotto il pretesto del beau geste: l’ammucchiata nel nome del “bene comune”, quello stesso che ordinariamente interessa tanto poco. E chi si chiama fuori è un irresponsabile.
Bene. Giorgia Meloni non ci sta. Se fosse una che ragiona abitualmente in termini di Realpolitik (e certo non lo è), avrebbe dovuto chiamarsi fuori ugualmente: il concorso delle varie forze politiche è stato corale, la maggioranza sarà presumibilmente molto alta, per cui Draghi non avrebbe comunque avuto mai bisogno del sostegno dei FI. E allora, perché offrirlo con la prospettiva di sentirsi rispondere “no, grazie” (quando si può e quando conviene, i voti targati comunque fiamma tricolore, per quanto diventata piccola piccola, tornano magicamente essere “inquinanti”) o per farsi assegnare qualche briciola. Lo sapeva fin da sempre, anche se insisteva per l’“unità del centrodestra” fingendo di crederci – né aveva del resto scelta: l’alternativa era l’isolamento –: alla prima occasione Berlusconi, Tajani e Salvini l’avrebbero mollata se si fosse profilata la possibilità di attaccarsi a un altro carro. In linea di principio, io non concordo con il suo “mai con la sinistra”, a meno che non si tratti di una sistematica difesa preventiva, vòlta ad evitare un “mai con la destra” dall’altra parte: in questo caso, però, si è trattato di un’uscita adeguata, quanto meno per scoprire gli altarini del gioco opportunisticamente sporco di Forza Italia e della Lega.
La sua opposizione solitaria, se fosse stata una manovra tattica, sarebbe stata comunque opportuna e inevitabile al tempo stesso: anche perché accompagnata da una chiara e limpida dichiarazione di disponibilità ad appoggiare quelle misure che sembrino utili al paese. Dove sta quindi la sua supposta “irresponsabilità”? Nel rifiutarsi di accettare il ruolo di pedina inutile, accettata di malavoglia e magari respinta?
Al contrario, e sempre per rimanere sul piano dell’eventuale manovra tattica, in caso d’immediato (possibilissimo), di prossimo o di un po’ più remoto (ma si tratterà di mesi ad andar bene) di questo “governo dei migliori”, ove si trattasse di un Draghi Due o di un ricorso alle urne, la sua mossa solitaria di oggi si rivelerebbe politicamente parlando molto redditizia. Perché Giorgia è una che la politica, nei limiti ristretti concessile dalla sua posizione – e con un partito che sa di essere sempre “sotto schiaffo”: basta un nulla, si provoca un incidente, si fa appello alla coscienza antifascista del paese e la si elimina –, la sa fare: vorrei proprio vedere qualunque altro leader che dovesse affrontare un tale handicap sempre incombente.
Il punto però è un altro. Questa non è un’opposizione tattica, dalla quale chi la fa possa aspettarsi chissà quali e quanti vantaggi immediati o futuri. Questa è un’opposizione non utilitaristica bensì di principio. L’opposizione a un governo che si muoverà nel senso voluto dal deep state che governa il mondo e che marcia nel senso della globalizzazione e dei “poteri forti” dell’economia e della finanza: il senso auspicato e voluto dal tentativo neounilateralistico voluto da Biden e soprattutto dall’Uomo Forte al governo di Washington, Kamala Harris: un nuovo progetto classicamente e tipicamente proprio del Partito Democratico di Roosevelt e di Kennedy, quello degli USA gendarmi umanitari del mondo e della coincidenza tra il bene del pianeta e il “manifesto Destino” degli Stati Uniti d’America. Se Trump stava marciando verso un bislacco avventurismo contro tutto e tutti, Biden punta a riallacciare l’alleanza con l’Europa e a renderla sempre più stretta in una prospettiva di ulteriore allontanamento atlantista da possibili rapporti con Cina e Russia: il tutto palesemente contro i nostri interessi europei che sarebbero, al contrario, quelli di fungere da cerniera e da plaque tournante che mediasse tra le soluzioni contrapposte alla ricerca di un equilibrio salutare per tutti.
La politica di Draghi sarà quella della funzionalità dell’Italia, nel contesto europeo, alle dinamiche volute dai signori di Davos, dalle forze NATO, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale: una politica rivolta all’ulteriore concentrazione della ricchezza e al progressivo deterioramento dei ceti medi e subalterni; una politica che avvilirà qualunque tentativo in senso solidaristico (altro che “sovranismo”!) e che si allineerà su scelte sistematicamente neoliberiste. A Forza Italia tutto ciò potrà andar bene; i populisti della Lega si accontenteranno di qualche specchietto per le allodole tipo qualche “misura forte” contro i migranti (mentre il vero grande problema italiano è semmai quello dell’emigrazione di forze giovani e vive, spesso culturalmente qualificate, che regalano all’estero competenze acquisite a spese del popolo italiano e, andandosene con alle famiglie, ci condanna a un ulteriore invecchiamento e a una caduta demografica forse fatale). Se l’equilibrio che oggi si profila dovesse andare avanti, l’esile voce di questa ragazzina che non ci sta sarebbe l’unica a salvaguardare lo straccio di dignità che ancora resta al nostro paese. Ma se il Governo dei Migliori dovesse alla breve o alla lunga naufragare (e, statene certi, accadrà), la fermezza e la dignità solitaria di oggi potrebbero pagare anche in termini politici. L’isolamento, peraltro, è deleterio sul piano del potere, ma lascia liberi in cambio di poter dire tutto quel che si vuole quando lo si vuole. E se nel domani dell’Italia ci fosse di nuovo bisogno di discorsi “di principio”, di valori morali?
Fra l’altro, fermo restando (chi ha seguito i 312 numeri precedenti dei Minima Cardiniana lo sa bene) che su molti argomenti io sono in disaccordo con Giorgia Meloni, ho molto apprezzato e continuo ad apprezzare la sua recente posizione in termini europeistici: è davvero l’ora che l’Unione Europea si apra la strada verso una soluzione identitaria di tipo politico-istituzionale, quella che il vecchio e purtroppo dimenticato Carlo Cattaneo definiva gli Stati Uniti d’Europa: ma la soluzione, che il grande pensatore lombardo scorgeva – guardando all’Italia e all’America del suo tempo – in senso federale, la soluzione “all’americana” o “alla tedesca”, è per l’Europa irrealizzabile. Troppo pesante è il retaggio – del resto per molti versi prezioso – del passato, troppo complessa la storia dei suoi stati nazionali e di quelle comunità che (dagli scozzesi ai baschi ai bretoni eccetera) sono state a lungo “nazioni negate” e sacrificate. Se per l’Europa vi sarà, prima o poi, un destino politicamente e istituzionalmente unitario, esso non potrà che adottare un modello “alla svizzera” (del resto, è proprio quanto lo stesso Cattaneo auspicava), cioè non già federale bensì confederale. Da vecchio europeista che sessant’anni fa s’illudeva che l’unità continentale fosse dietro l’angolo, oggi auguro a Giorgia Meloni di riuscire a farsi leader dei Fratelli d’Europa che non ci sono ancora. Ma che dovranno pur spuntar fuori, quando decideremo di smetterla di farci del male.
Giorgia, oggi è san Teodoro. Era un “santo militare”, uno dei tre patroni guerrieri dell’Impero Romano d’Oriente insieme con san Mercurio e col tuo San Giorgio. Buona fortuna, nella tua caccia ai Draghi.

Franco Cardini

Franco Cardini su Barbadillo.it

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