Giornale di Bordo. Guardare “The Crown”, pensando a Eden (e a Ricciardetto)

La figura di Anthony Eden è molto ridimensionata nella serie: fu un ostile all'Italia per pregiudizi ideologici antifascisti

The Crown

Netflix è un grande contenitore e, come tutti i contenitori, comprende contenutidi valore assai diverso. Tanto, come ho lamentato qualche settimana fa, la serie “Bridgerton”, ambientata nell’Inghilterra georgiana, con la regina Carlotta interpretata da un’attrice di colore, è opinabile nell’ambientazione storica, tanto “The Crown”, dedicata alla famiglia reale inglese nel secondo dopoguerra, è suggestiva nell’ambientazione, impeccabile nella sceneggiatura, straordinaria per qualità degli interpreti, splendida nella fotografia. Non sono abbastanza esperto di storia britannica né di gossip sui reali per individuare eventuali forzature, ma non posso fare a meno di apprezzare il netto ridimensionamento della figura di Anthony Eden, che oltre ad essere stato un grande nemico dell’Italia, fu uno dei politici inglesi più deleteri per le sorti dell’Europa.

Eden appare in “The Crown” per quello che fu: la caricatura di un gentleman oppresso dalla troppo più alta statura politica e morale di Churchill, un intrigante che lavora nell’ombra per costringerlo a dimettersi, salvo, entrato al suo posto in Downing Street, accelerare il declino della Gran Bretagna con la mal concertata (anche se a dire il vero non ingiustificata) impresa di Suez. Un ambizioso che, dopo avere spinto Churchill a farsi da parte in quanto vecchio e malato, in piena crisi “marca visita” e va a fare del “turismo sanitario” in Giamaica.

In realtà, da ministro degli Esteri del Regno Unito, vent’anni prima Eden aveva fatto molto di peggio: all’epoca della guerra d’Etiopia sconfessò il piano Laval-Hoare, che prevedeva la sospensione delle ostilità e la cessione dei due terzi dell’Abissinia all’Italia, una superficie più ampia di quella che le nostre truppe erano riuscite a occupare, in cambio della cessione da parte nostra all’Etiopia della baia di Assab come sbocco al mare. La colpa del fallimento fu all’inizio una fuga di notizie captata da un quotidiano parigino, ma Eden ci mise del suo. Oltre tutto era molto probabile che Mussolini avrebbe accettato quell’onorevole compromesso: la guerra non andava gran che bene, anche perché il generale fascista Emilio De Bono, già quadrunviro della Marcia su Roma, non aveva voluto utilizzare quelle armi chimiche cui non si fece scrupolo invece di ricorrere il suo successore, il monarchico e apolitico Badoglio, futuro affossatore del regime.

Succeduto a Hohare al Foreign Office, Eden perseguì una politica di intransigenza nei confronti dell’Italia i cui esiti furono rovinosi: le sanzioni ci spinsero nelle braccia della Germania, con cui appena un anno prima eravamo entrati in rotta dopo l’assassinio di Dolfuss. Per difendere l’indipendenza di uno Stato feudale, in cui era ancora in vigore la schiavitù, Eden provocò la rottura del “fronte di Stresa”, che avrebbe ancora potuto contenere il revanscismo tedesco. In questo modo l’Europa avrebbe potuto salvare la pace, e l’Inghilterra l’Impero. Certo, l’uomo aveva anche i suoi meriti – era stato tra l’altro un valoroso combattente,  e faceva male Mussolini a definirlo “il cretino meglio vestito d’Europa”; per altro, come scriveva Ricciardetto, alias Augusto Guerriero, in quella deliziosa raccolta di profili di politici e militari che è Guerra e dopoguerra (Bompiani 1942), sbarcò a New York malvestito, con una giacca nera e pantaloni a righe “come un impiegato di second’ordine”, con sotto una camicia blu e una cravatta grigia, deludendo la folla che l’aspettava per acclamarlo.

È difficile capire quanto sull’atteggiamento di Eden nei confronti dell’Italia abbia influito il pregiudizio antifascista – non condiviso invece da Churchill – e quanto un sottile disprezzo quasi razziale di parte dell’élite britannica nei confronti della nostra nazione. Un fatto è certo: come ministro degli Esteri  ignorò i sondaggi di pace da parte della casa Savoia e di alcuni esponenti del mondo politico e militare antifascista, si oppose al desiderio di Roosevelt e di Churchill di non estendere al nostro paese nella dichiarazione di Casablanca la deleteria formula della “resa incondizionata”, intensificò fino all’8 settembre i bombardamenti sulla Penisola, nonostante le sollecitazioni del presidente degli Stati Uniti, quest’ultimo forse mosso dalla consapevolezza che gli italo-americani votavano in prevalenza per il suo partito. Senza le ottuse pregiudiziali di questo “Cavaliere dalla spada di legno”, come lo definì Walter Lippman, l’Italia avrebbe potuto sganciarsi dall’alleato tedesco quando ancora le truppe germaniche non erano onnipresenti in tutto il suo territorio e negoziare una pace separata che le concedesse la conservazione della sua frontiera orientale prebellica e delle colonie prefasciste, se non del Dodecaneso, che sarebbe stato difficile rifiutare alla Grecia.

La serie “The Crown” ha tra l’altro il merito di cogliere un altro aspetto della psicologia di Eden rovinoso per le sorti della Gran Bretagna: la sua ostilità a Nasser, deleteria perché spinse l’Egitto nell’orbita sovietica; un’ostilità che fu in buona parte una proiezione del suo antifascismo. Nel Raïs  il premier inglese paventò una reincarnazione dell’odiato Duce, che l’aveva umiliato in Etiopia – e forse qualche piccola giustificazione l’aveva, visto che Nasser aveva militato prima di entrare all’Accademia militare nelle Camicie Verdi filofasciste ed era stato favorevole all’Asse, parte per antisionismo, parte per odio alle ingerenze inglesi sul suo Paese, solo formalmente indipendente.

Come gli era successo con Mussolini nel 1936, però, vent’anni dopo Eden non la spuntò con Nasser. Per una strana nemesi storica, l’uomo che per frustrare le nostre aspirazioni coloniali aveva gettato l’Italia in braccio a Hitler pose con l’impresa di Suez le premesse per la fine del colonialismo britannico. Per lui valse sino in fondo quanto Ricciardetto ne aveva scritto nel già citato Guerra e dopoguerra: “Eden è l’incarnazione della sconfitta del suo paese. Fu quando lui era ministro, che cominciarono per l’Inghilterra le grandi sconfitte. Fu lui che ebbe la singolare idea di procurare al suo paese, per affari che non lo riguardavano affatto, l’inimicizia dell’Italia: la provocò in tutti i modi, se la meritò, se la guadagnò. Fu proprio mentre il conflitto con l’Italia, da lui provocato, era più che mai ardente, fu allora che Hitler fece il grande colpo della Renania, il primo e il più audace di tutti i colpi, quello che poi rese possibili tutti gli altri.”

Ricciardetto (lo pseudonimo gliel’aveva coniato Leo Longanesi) scriveva nel 1942: non poteva prevedere che Eden, nel ministero di Churchill, avrebbe vinto la guerra. Eppure, nel cogliere la vocazione dell’uomo per la sconfitta, aveva visto lontano.

p.s.  sono grato a “The Crown” anche per avermi fatto rileggere Ricciardetto e in particolare quel Guerra e dopoguerra che ho comprato pochi anni fa per due euro da un rigattiere e che comunque si trova ancora oggi in vendita sul web, sia pure a dieci volte tanto. Da ragazzino seguivo ammirato le sue “Memorie dell’Epoca”, sull’omonimo settimanale per famiglie. A vent’anni studiai la rubrica “Guerra e Pace” che teneva su “Omnibus” di Longanesi, preparando un saggio su quel settimanale per la rivista “Intervento”, in cui scrissi quello che gli storici accademici avrebbero scoperto quarant’anni dopo, ovvero che era tutt’altro che una rivista antifascista, come i suoi ex collaboratori avevano fatto credere per autoassolversi. Ma “Intervento” era pubblicata dall’editore Giovanni Volpe, figlio dello “storico ufficiale del fascismo” Gioacchino (che però all’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea di Roma proteggeva gli antifascisti, Nello Rosselli incluso) e quindi nessuno prese il mio articolo in considerazione.

Avevo in quei lontani anni Settanta qualche prevenzione nei confronti di Augusto Guerriero – Ricciardetto perché si era schierato pro-compromesso storico, rompendo col suo vecchio amico Montanelli, ma debbo riconoscerne la grandezza. Di professione magistrato della Corte dei Conti, fu un brillante commentatore di politica estera senza mai uscire dall’Italia, un po’ come Salgari che scriveva i suoi romanzi sui pirati della Malesia senza allontanarsi dalla scrivania cui l’aveva confinato l’avidità dei suoi editori. Ma se un paragone è appropriato, credo lo sia con Mike Bongiorno: se quest’ultimo importò in Italia la tecnica dei quiz a premi, Ricciardetto introdusse nei commenti di politica estera uno stile asciutto e antiaccademico, mediato dal grande giornalismo statunitense, che ne fece un po’ il Lippman italiano. Prese lo stesso grandi cantonate, per esempio prevedendo che gli americani avrebbero vinto in Vietnam, ma la sua vera debolezza fu lasciar accreditare la tesi, poco fondata, del suo pregresso antifascismo. Dopo la sua morte Sandro Gerbi, un giornalista italiano nato a Lima perché il padre si era dovuto trasferire in Perù per sottrarsi alle leggi razziali, fece una ricerca bibliografica sulla sua collaborazione al “Corriere della Sera” e scoprì che Ricciardetto vi aveva pubblicato alcuni articoli decisamente allineati con la polemica antisemita. Le risultanze le raccolse in un saggio uscito nel 1999 su “Belfagor”.

Quaesivi et non inveni, si intitolava uno degli ultimi libri di Guerriero: quello che aveva cercato e non trovato, era la Fede. Sandro Gerbi, invece, quaesivit et invenit, non la fede, ma le tracce, troppo a lungo occultate, dell’allineamento di Ricciardetto con le direttive del regime. Sono cose che capitano, anche ai Lippman in camicia nera.

@barbadilloit

Enrico Nistri

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