“Io ho paura”. Dietrologia, complotti e misteri nell’Italia ferita degli anni Settanta

Damiano Damiani, Nicola Badalucco, Gian Maria Volontè e il racconto della strategia della tensione

"Io ho paura" con Volontè

“Io ho paura” di Volontè

Sulla modalità con cui il cinema descrive la realtà e la decostruisce è già stato scritto un discreto quantitativo di materiali. Certi percorsi, anche artistici, sono fatti di incastri, collegamenti e coincidenze, anche se lontano dalle luci della ribalta ufficiale. Gian Maria Volontè è stato indubbiamente una figura formidabile per quel che riguarda la dimensione dell’arte e della recitazione e non ha mai fatto mistero di appoggiare le idee della rivoluzione anche attraverso l’arte appoggiando le posizioni extraparlamentari sull’onda, di certo non corta, del Sessantotto. Oltre ai celebri film politici e politicizzati di Elio Petri, di Marco Bellocchio, oltre ai primi due film delle Trilogia del dollaro di Sergio Leone, Volontè non ha mai disdegnato film per certi versi “minori” e il caso del film Io ho paura è uno di questi. In alcuni casi però verrebbe da chiedersi se fossero minori qualitativamente o minori per risonanza mediatica.

Un film di culto, passato per poche mani, con poco consenso. Apparentemente di maniera, è un film che può risultare, senza troppa fatica, l’affresco di un’epoca. Girato nel bel mezzo degli anni di piombo, seguendo l’onda del cinema politico (benché certi asseriscano che tutto il cinema in un qualche modo lo sia) a cui Damiani non si è certo sottratto in quegli anni. Basti ricordare Il giorno della civetta, il delitto Matteotti. E poi, la prima, epocale e indimenticabile, stagione della Piovra.

Un film dallo scorrimento veloce, scatti e adrenalina degni dello spionaggio più ricercato.  La storia poggia sull’umano senso di autoconservazione di un carabiniere, uno qualunque, inquieto dubbioso. Cos’è la giustizia? Fino a che punto ci si può spingere per senso del dovere? Quanto vale la vita di un uomo? Sono queste le domande che attanagliano il petto del brigadiere Graziano perennemente teso tra la difesa dello stato e lo schivare guai perché già sottoposto ad una tensione indescrivibile causata da una quotidianità precaria su tutti i fronti. il pensiero di un impiego di comodo nell’arma, la scorta ad un giudice ormai prossimo alla pensione lo trascina in un gorgo di intrighi torbido e dalla acuminata spietatezza.

Damiani ha scelto l’impegno civile, in quegli anni, come scelta narrativa e stilistica. Persino affrontando il western, dirigendo uno dei primi western assimilabili al filone dei western “politici” Quien sabe? Con Lou Castel e Gian Maria Volontè. L’eco sociale è quasi roboante. Ci si trova nel pieno del 1977, un anno feroce, un anno turbolento, di pallottole nelle strade e non solo, la paura, termine spesso prestato al vocabolario demagogico, era materia da agenda politica, dato catturato con perizia dagli autori. C’è il femminismo, l’impegno politico, gli extraparlamentari, l’autocritica, in ogni campo. Sembra anticipare di qualche anno il canto del cigno che verrà sancito dalla disillusione e dal disimpegno tanto criticato da una certa fronda intellettuale nei decenni a venire.

Dietro Il soggetto del film si ritrova solo il contributo di Damiani, per lo meno non totalmente. Il calco di Nicola Badalucco, firma cardine del filone etichettato ex post come cinema d’impegno civile, ad uno studio accurato risulta qui evidente. Badalucco ha una vita geograficamente complessa e a tratti multiforme. Nato a Milano, formatosi a Trapani, è Roma la realtà del cambiamento. Lì subisce la svolta professionale, diventando giornalista e critico cinematografico. Quella per il mezzo cinematografico è una folgorazione che sembra tormentarlo, così passa all’azione in poco tempo. Esordisce con La caduta degli Dei, di Luchino Visconti, di cui firma la sceneggiatura. Utilizza il cinema e la sua narrazione per trasferire in chiave narrativa la suggestione di una realtà cangiante e complicata.

Da giornalista si era occupato del caso di Salvatore Carnevale, sindacalista ucciso dalla mafia, dalla cui vita è stato tratto il film Un uomo da bruciare con la regia “doppia” che vede i fratelli Taviani, esordienti, e Valentino Orsini, il cui ruolo da protagonista è affidato proprio Gian Maria Volontè, in quegli anni nel pieno degli esordi e delle forze, trascinato da un’interpretazione verace, da cui si evince il sottile confine tra il mestiere dell’attore il talento e  l’esigenza esistenziale di unire cultura e impegno civile. Badalucco ottiene ulteriore affermazione quando sceneggia la Piovra, sempre in sodalizio con Damiani. La prima stagione, insieme alla figura del celebre commissario Cattani sarà destinata a rimanere inscritta nella memoria culturale. Badalucco coniuga la passione civile per gli angoli oscuri della geopolitica con il ritmo del cinema di genere trovando in Damiani un acuto alleato.

Cosa collega Volontè, Damiani e Badalucco? Una passione primaria per l’arte e per la narrazione attraverso di essa. Il mezzo artistico privilegiato di cui si servono è il cinema, utilizzato come uno scalpello con cui decostruire il conformismo, dando forma, concretamente, ad una visione. Si tratta, per converso, oggi, di tre figure circondate da un alone opaco, rivolto verso un progressivo oblio. La loro produzione procede oltre gli spigoli del politicamente corretto, scegliendo la politica dell’impegno civile, restando nella nicchia del coraggio artistico.

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Stefano Sacchetti

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