Giornale di Bordo. Firenze e la laurea a Frau Merkel in storia. Quale storia?

La concessione della cittadinanza onoraria alla Merkel appare un’operazione meramente propagandistica, cui per altro si è voluta aggiungere, un po’ in veste di mosca cocchiera, l’università fiorentina, che ha deciso di conferire la primavera prossima la laurea in scienze storiche honoris causa alla Cancelliera

Merkelkel

17 dicembre

Laurea honoris causa a Frau Merkel in storia. Quale storia?

Il Comune di Firenze ha deciso di conferire la cittadinanza onoraria di Firenze ad Angela Merkel. La scelta ha suscitato le riserve di parte delle opposizioni, che hanno fatto notare fra l’altro l’assenza di stretti legami fra la città del Giglio e la cancelliera. Ben altro significato aveva avuto, nel 1955 la concessione della cittadinanza di Firenze all’ex console tedesco Gehrard Wolf, che, anche col sostegno dell’ambasciatore e plenipotenziario del Reich in Italia Rudolf Rahn, riuscì fra il settembre del ’43 e l’agosto del ’44 a salvare dalla deportazione molti ebrei, fra cui il grande storico dell’arte e collezionista Bernard Berenson, e a impedire che venisse razziata la sua collezione di opere d’arte. C’è chi sostiene che avesse contribuito anche a salvare il Ponte Vecchio dalla demolizione, ma la questione è incerta, come è incerto se la mancata distruzione del ponte, che indusse i tedeschi a minare gli edifici adiacenti per impedire il passaggio delle truppe alleate, sia stata davvero un bene per il patrimonio architettonico fiorentino.

Al ogni modo, ad appena dieci anni dalla fine della seconda guerra mondiale, dichiarare cittadino onorario di Firenze un diplomatico tedesco, che aveva preso sia pur riluttante la tessera del partito nazionalsocialista, fu un gesto coraggioso e generoso da parte del “sindaco santo” Giorgio La Pira, e un contributo a quella riunificazione morale dell’Europa, presupposto per la sua unificazione economico-politica, che all’epoca avveniva grazie al contributo di uomini straordinari come Adenauer, Schumann e lo stesso De Gasperi.

Al confronto, la concessione della cittadinanza onoraria alla Merkel appare un’operazione meramente propagandistica, cui per altro si è voluta aggiungere, un po’ in veste di mosca cocchiera, l’università fiorentina, che ha deciso di conferire la primavera prossima la laurea in scienze storiche honoris causa alla Cancelliera. Una scelta dettata non da motivazioni culturali (la Merkel ha compiuto studi scientifici, per altro qualificati, nell’ambito della chimica quantistica), ma da motivazioni di carattere politico. Si potrà obiettare che una laurea honoris causa in storia può premiare non solo chi ha scritto di storia, ma chi ha scritto la storia. Ma in questo caso sarebbe meglio onorare un leader al termine della sua parabola politica, non a bocce in movimento; a scrivere la storia della Germania moderna è stato semmai quel Kohl di cui, prima di abbadonarlo, la Cancelliera fu la protetta e la pupilla.

Ci potrebbe essere però un altro motivo per cui Frau Merkel sarà addottorata in scienze storiche: essersi rifiutata il 4 giugno del 2000, quando era già presidente della Cdu, di tenere la rituale laudatio in occasione del conferimento del premio Adenauer a Ernst Nolte. Nolte è stato uno dei più grandi, forse il più grande, storico tedesco dell’età contemporanea: storico e filosofo della storia, all’uso germanico, non a caso era stato allievo di Heidegger. All’inizio della sua carriera, negli anni ’60, fu apprezzato negli ambienti accademici e criticato dall’estrema destra: Adriano Romualdi definì il suo saggio I tre volti del fascismo la “metafisica di Yalta”. Quando però, con il suo lucido saggio La guerra civile europea 1917-1945, osò sostenere che senza la rivoluzione bolscevica non ci sarebbe stato il nazionalsocialismo e senza i gulag i lager, subì un linciaggio morale addirittura superiore a quello che Renzo De Felice dovette affrontare in Italia. Il pilatesco rifiuto della presidente della Cdu di onorare il vincitore del premio intitolato al fondatore del suo partito la dice lunga sui sentimenti di Frau Angela e aiuta a capire anche molte sue prese di posizione successive. La laurea honoris causa dell’università di Firenze rischia così di apparire non un premio alla, ma contro la ricerca storica.

18 dicembre

Genovese ha le sue colpe. Ma l’omicidio stradale è un monstrum giuridico

Apprendo con stupore la notizia della condanna a otto mesi di carcere inflitta a Pietro Genovese per duplice omicidio stradale. Spero solo che in appello la sentenza venga riformata. La giuria è andata oltre le stesse richieste del pubblico ministero, che aveva richiesto “solo” cinque anni. Un anno fa il figlio del noto regista investì uccidendole due ragazzine che in piena notte attraversavano una strada a grande scorrimento. Che l’episodio meritasse una condanna severa, a prescindere dalla notorietà del padre dell’imputato, noto regista, è indiscutibile, visto il fatto che il ventenne Pietro Genovese procedeva con una velocità e un tasso alcolico molto superiori a quanto consentito. Resta il fatto che otto anni di carcere sono moltissimi, in una nazione dove gli spacciatori appena arrestati vengono scarcerati, ci sono parricidi che hanno ereditato  i beni dei genitori uccisi perché riconosciuti seminfermi di mente e l’adepta di una setta satanista che assassinò una suora oggi pratica la professione forense dopo essersi laureata in giurisprudenza a nostre spese.

In passato chi provocava incidenti mortali godeva, se rimaneva sul luogo del delitto invece di fuggire, di un’impunità di fatto. I danni li pagava l’assicurazione (e chi non era assicurato il più delle volte era insolvibile, per cui le spese ricadevano sulla comunità) e le condanne consentivano al giudice di concedere la condizionale. L’impunità era scandalosa soprattutto quando il colpevole non si sentiva in dovere nemmeno di manifestare pentimento e di chiedere scusa ai parenti della vittima. Ma la colpa era in parte dei magistrati, che in certi casi avrebbero potuto infliggere il massimo della pena e negare la condizionale ai responsabili di certi comportamenti.

Dalla reazione a questi abusi, e dall’impegno tenace dei genitori di una delle vittime, è nata la legge sul cosiddetto omicidio stradale, che ha pesantemente accresciuto le pene per chi provoca incidenti non solo in caso di guida con un elevato tasso alcolemico o sotto l’effetto di stupefacenti, ma compiendo manovre di una particolare pericolosità. La sua maturazione è stata lunga e tormentata, anche perché si tratta di un vero e proprio monstrum giuridico: non si capisce perché l’omicidio stradale non debba essere trattato alla stregua degli altri omicidi colposi, a meno che non si vogliano varare nuove norme contro gli omicidi marittimi, aerei, fluviali, ferroviari e via discorrendo. Fra i suoi più autorevoli avversari vi è stato il senatore Carlo Giovanardi, che la giudicò più una scelta demagogica, destinata a venire incontro al pur comprensibile dolore dei parenti delle vittime, che una norma in grado di ridurre la mortalità legata agli infortuni sulla strada.

E in effetti (mi rifaccio ai dati relativi al periodo 2016-19) la mortalità è diminuita molto modestamente e con ogni probabilità grazie soprattutto al miglioramento dei dispositivi di sicurezza installati sulle auto. In certi casi le sanzioni possono avere avuto risultati controproducenti, con la fuga strategica dal luogo del sinistro dei responsabili degli incidenti per sottrarsi a controlli sul tasso alcolemico o sull’ingestione di sostanze psicotrope. È il tipico caso di eterogenesi dei fini, per cui la scelta di sanzionare più pesantemente l’investitore fa sì che l’investito sia abbandonato al suo destino.

Risultati molto migliori si potrebbero ottenere migliorando la segnaletica, eliminando la vergogna di cartelli stradali coperti dalla vegetazione o di “zebre” mal tinteggiate mentre si riverniciano puntualmente le “strisce blu” nate per estorcere soldi agli automobilisti, vietando la sosta in prossimità degli incroci o dei passaggi pedonali, come prevedrebbe il codice, appostando pattuglie di vigili in prossimità delle strisce e multando chi non si ferma in presenza di un pedone, prevedendo l’arresto immediato per chi viaggia in un’auto non assicurata, sanzionando seriamente l’uso e l’abuso di cellulari durante la guida, divenuti, ben più dell’alcol, la prima causa di incidenti. Ma, si sa, la prevenzione costa più della repressione ed è più facile recare conforto con una condanna draconiana ai parenti delle vittime che impedire che ci siano nuove vittime e nuovi parenti da consolare.

19 dicembre

Natale 1. Albero versus Presepe

Si avvicina il 25 dicembre, o meglio è già quasi arrivato, perché dai primi del mese gli addobbi per le feste illuminano le strade cittadine, ricattatori spot di Amazon ci invitano a comprare i regali in tempo, ovviamente con consegna a domicilio, e un po’ tutti i canali televisivi trasmettono filmetti ad alto contenuto di glucosio, fatti di baci sotto il vischio, di slitte di veri babbi Natale alle prese col caos di New York, di duelli fra città rivali in concorsi per chi dimostra un vero “spirito natalizio”, di sciagure che costringono al ravvedimento operoso la coppia di sposi che, invece di celebrare i sacri riti del Natale con i vicini, ha l’ardire di approfittare delle festività per farsi in tutta pace una crociera.

Quando ero ragazzo, in casa mia sia il presepe che l’abete si allestivano solo pochi giorni prima del 25 dicembre, in genere il 22, quando la scuola si concludeva con la lectio brevis. Il mio compito istituzionale era comprare al ritorno l’albero da un venditore ambulante in uno slargo nei pressi della chiesa della Madonna della Tosse. All’epoca la moda degli abeti di Natale ecologici  non era cominciata; per qualche anno provammo a comprarne uno con “il pane”, ma ci moriva regolarmente con i calori estivi di Firenze, nonostante che il fedele portinaio Giuseppe l’innaffiasse regolarmente d’agosto, in cambio per altro di una congrua mancia.

Ogni volta che mi fermavo in quello slargo non potevo fare a meno di pensare a un tristissimo romanzo di Betty Smith, Un albero cresce a Brooklyn, che piaceva tanto alle professoresse degli anni ’60, per le quali, quando avevano vent’anni, la letteratura americana aveva avuto il sapore del frutto proibito, e che io invece non potevo sopportare. Però mi sentivo orgoglioso di portare a casa quel pesante fardello, con tutta l’energia dei miei muscoli adolescenti, e quel tonico sforzo fisico si associava al senso di sollievo per l’inizio delle grande vacanze invernali. In realtà, in casa mia si facevano sia l’albero sia il presepe, ma l’allestimento di quest’ultimo, che era stato il grande e meraviglioso gioco della mia infanzia, aveva cominciato dai dodici anni a farmi provare un senso  d’imbarazzo, quasi di rimorso, man mano che l’innocenza della fanciullezza lasciava il campo ai primi dubbi di fede e ai più o meno inconsapevoli pruriti della pubertà.

Oggi mi rendo conto che la prevalenza dell’abete sul presepe negli addobbi natalizi riflette in grande quel mio sentimento adolescenziale. Non è più questione di differenze fra l’Europa nordica e luterana, o il Nordamerica wasp, e l’Europa meridionale, cattolica e figlia della Controriforma. Da un punto di vista storico, la penetrazione dell’albero di Natale in Italia cominciò con l’ultima guerra, con gli eserciti di due nazioni protestanti, la Germania e gli Stati Uniti, che occuparono più o meno durevolmente il nostro suolo. Ma oggi, in una società secolarizzata e globalizzata, le appartenenze confessionali e nazionali contano solo in parte. L’abete batte il presepe perché non è carico di significati religiosi, perché è più decorativo, perché i suoi rami invitano a decorarli con pacchetti regalo. E soprattutto perché è il poco impegnativo logo di un Natale che si celebra in tutto il mondo senza ricordarsi spesso di Chi è nato quel 25 dicembre.

20 dicembre

Natale 2. Gesù Bambino può nascere due ore prima, ma lo shopping natalizio non deve finire

C’è una logica sottile nella daltonica decisione del governo di trasformare tutta l’Italia in zona gialla i giorni prima di Natale, salvo retrocederla a zona rossa durante le festività, per evitare assembramenti e potenziali contagi nei cenoni. Evidentemente l’acquisto dei regali di Natale è stato ritenuto più importante del Natale stesso e se Gesù Bambino può nascere due ore prima, come qualcuno del Governo ha infelicemente sostenuto, non si può far perdere a commercianti pesantemente penalizzati dalla pandemia e dall’e-commerce i proventi di due giorni di shopping più o meno compulsivo. Può sembrare un’aberrazione, ma è semmai un’amara realtà: il Natale è oggi una festa più consumistica che mistica, e mi si rivela in tutta la sua saggezza quanto un alto ufficiale in pensione, uomo colto e schietto, già comandante della divisione Julia e direttore della Scuola di Guerra, mi obiettò quando mi lamentavo dell’ossessione dei regali della vigilia: “Va bene, ma senza il consumismo che cosa resterebbe del Natale?” Purtroppo, aveva ragione lui.

21 dicembre

A proposito di vaccini. Fra dittatura salutistica e caccia alle streghe

Ho sempre ritenuto prerogativa delle persone stupide discutere dogmaticamente di questioni pratiche, e viceversa. Conosco amici tolleranti su qualsiasi questione teologica o filosofica, ma disposti a intrattenere piccose discussioni se si tratta di decidere se sono migliori gli asparagi alla Bismarck o all’agro. Ho l’impressione che in materia di vaccini stia accadendo qualcosa di simile. Ovviamente, è in ballo qualcosa di più importante di un contorno, ma il dogmatismo empirico è lo stesso e ora si ripropone in materia immunologica. Un’opinione pubblica esasperata per le privazioni materiali e morali che la diffusione della pandemia comporta è scatenata contro i veri o presunti negazionisti e c’è già chi propone nelle lettere al giornale o sui social di negare le cure mediche a chi rifiuta di farsi siringare con un vaccino sperimentato in tempi strettissimi e che ha già suscitato qualche problema d’intolleranza. Nel frattempo la stessa Congregazione per la dottrina della fede ha ritenuto legittimo l’utilizzo di vaccini realizzati utilizzando “linee cellulari provenienti da feti abortiti”, sia pure “nel secolo scorso”.

Non sono un medico, né un veterinario, né un immunologo, per cui evito di prendere posizione in una disputa che si fa sempre più avvelenata. Mi limito a registrare quanto avevo osservato nei primi mesi della pandemia, quando il fatto che malati di Covid tornassero ad ammalarsi mi induceva a dubitare dell’efficacia di un vaccino, vista la mutevolezza del virus. Il manifestarsi di quella che viene chiamata la variante inglese del Covid (ma guai invece a chiamare il coronavirus influenza cinese: non sarebbe politicamente corretto) dà purtroppo ragione ai miei timori. Nel frattempo chi meno di un anno fa considerava un comportamento xenofobo imporre la quarantena a quanti dalla Cina entravano in Italia oggi chiude le frontiere europee ai britannici. Poco male per questi ultimi, che davanti a sé hanno l’oceano e titoleranno sempre sui loro giornali che il continente è isolato dall’Inghilterra, e non viceversa. Qualche problema in più, forse, per noi.

22 dicembre

Natale 3. Panettone, amore e pandemia

Il governo Conte stravolge i proverbi e, dopo averci vietato di fare Pasqua con chi vuoi, oggi ci rende problematico fare Natale persino con “i tuoi”, ovvero con i più stretti congiunti. O meglio, impone scelte che potrebbero risultare imbarazzanti se non devastanti, per chi, come a suo tempo Vittorio De Sica, si divide fra due famiglie.

Al tempo stesso, i divieti del governo potrebbero presentare un risvolto positivo: salvare molte famiglie più o meno allargate dall’obbligo di una convivenza forzata, dagli abbracci coatti con parenti serpenti, suoceri ingombranti, nuore invidiose, dall’allegria obbligata di cenoni in cui si annaffiano il pandoro o il panettone col fiele dell’ipocrisia, e dall’indigesta commensalità fra persone che fingono di amarsi, ma in realtà convivono solo per rispettare le forme dinanzi a bambini che a loro volta aspettano solo che i grandi la smettano di abbuffarsi per essere liberi di andare a giocare.

Chi l’avrebbe detto che ci sarebbe voluto un virus letale come il Covid per salvarci da un virus altrettanto se non addirittura ancor più mortale: l’ipocrisia?

23 dicembre

Diritto a Internet o dovere a Internet?

Pare che Pd e Movimento 5 Stelle abbiano intenzione d’inserire nella Costituzione il diritto a Internet. Ho sempre ritenuto la nostra suprema carta un albero di Natale appesantito da troppi veri o presunti regali, sotto forma di promesse che poi è impossibile mantenere. Il diritto al lavoro per esempio non è assicurato dal genio dei padri costituenti, ma dalla vitalità dell’economia e da un assetto giuridico che premia l’operosità e il risparmio. Il diritto a Internet però mi lascia perplesso per un altro motivo: non vorrei che dietro di esso si nascondesse il dovere a Internet, ovvero l’obbligo di effettuare tutte le nostre transazioni e di tenere tutti i nostri rapporti con la pubblica amministrazione per via telematica. Un mondo in cui tutti i nostri movimenti e i nostri comportamenti sono “tracciati”, in cui l’identità digitale prende il posto dell’identità reale, in cui non è possibile rivolgersi a una persona in carne e ossa per risolvere un problema, in cui con l’obbligo della Pec saremo raggiungibili in tempo reale da ingiunzioni e sanzioni, mi pare molto vicino a quello descritto da Orwell in 1984. Il trionfo della banda larga rischia di rendere i nostri margini di libertà sempre più stretti.

Natale 4. Ad ogni modo, auguri per tutti!

Dopo avere scritto sul Natale quello che ho scritto, ho paura di essere frainteso. Vacanze invernali senza luci, senza spumante, senza bicarbonato, senza flatulenze, senza abeti, senza regali da spacchettare e magari da riciclare, sarebbero molto tristi. Buon Natale a tutti, e soprattutto lasciate il più a lungo possibile, almeno fino alla Befana, abeti e luci colorate ai balconi, anche se, come dice una mia vicina di casa un po’ spocchiosa, “fanno casa popolare”. Non c’è nulla di più triste di un soggiorno dopo Capodanno a Parigi, dove non si festeggia l’Epifania e gli abeti finiscono nei cassonetti dopo la notte di San Silvestro. La felicità può essere anche uno spelacchiato albero di natale, anche per chi nel Natale con la enne maiuscola non ci crede più.

 

 

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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