Formula 1. Manfred Winkelhock: il coraggio di avere paura

Partì dal nulla e arrivò in F1 negli anni ‘80. Sempre in nome di un coraggio smisurato, caratterizzato da un dolce e personalissimo senso del rischio

Nella narrazione sportiva contemporanea è oggi particolarmente in auge il termine anglosassone “sliding doors” (alla lettera, traducibile come “porte che scorrono”), per indicare quell’elemento minimo ed imprevedibile che può stravolgere la vita di una persona, mentre sul versante della matematica e della fisica, l’effetto farfalla della teoria del caos prova a teorizzare come talune piccole variazioni nelle condizioni iniziali, possano produrre delle grandi variazioni (financo rappresentabili come un uragano) nel comportamento a lungo termine di un sistema: questi due aspetti, solo all’apparenza sconnessi, si combinano in realtà perfettamente e metaforicamente nelle dinamiche delle carriere di importanti personaggi sportivi, carriere che solo un occhio volutamente miope potrebbe non interpretare come ispiratrici di una fantasia e di un’immaginazione d’altri tempi.

Il canto del cigno

È il 21 ottobre 1984 e si è appena concluso il più celebre dei gran premi di Portogallo, con Prost primo e Lauda secondo, risultato sufficiente all’austriaco della McLaren TAG-Porsche per aggiudicarsi il terzo iride della carriera, sopravanzando di appena mezzo punto il compagno Alain.

Eppure, scorrendo quella classifica portoghese, c’è ancora qualcuno che a seconda del lato da cui lo si osservi, possa esser bollato come il più deluso o il più deludente di tutti: è Manfred Winkelhock, sulla Brabham numero 2, decimo al traguardo dopo essersi qualificato diciannovesimo in griglia.

La Brabham BT53 messa in pista per quella stagione dalla scuderia inglese, pur non essendo certamente la vettura che con Nelson Piquet aveva conquistato i titoli nel 1981 e nel 1983, aveva in ogni caso ottenuto, nelle quindici gare sin lì disputate in quel 1984, due vittorie, un secondo posto e un terzo con lo stesso Piquet oltreché, un terzo posto con Teo Fabi, che proprio Winkelhock era stato chiamato, una tantum, a sostituire: arrivato finalmente su una vettura competitiva, dopo l’apertura improvvisa della tanto sospirata porta giusta, e dopo una gavetta infinita, l’occasione veniva alla fine miseramente fallita con una gara troppo anonima per essere vera, troppo piatta per rispecchiare un amore genuino che Manfred provava per tutto ciò che avesse quattro ruote ed un motore.

La Formula 1 di oggi, ipertecnologica e che negli ultimi tre anni (dal cambio di proprietà) si è decisamente aperta all’utilizzo delle reti sociali di comunicazione, ha in Kimi Raikkonen – il quale in verità sta imparando a convivere con il suo personaggio- l’antieroe per eccellenza e a riprova di questo si vedano i curiosissimi siparietti rilasciati dai vari profili ufficiali, suoi, della scuderia e della F1; ormai però, la figura dell’antieroe, anche nel mondo dei motori, si è istituzionalizzata ed è ormai soltanto uno dei pilastri su cui questa piece teatrale velocissima e miliardaria si costruisce e si legittima ogni volta.

Ripensando agli antieroi, è impensabile non tributare un commosso ricordo a Manfred Winkelhock, per quanto egli stesso non abbia mai fatto mistero di esserlo, in un’era molto più severa e in cui le auto erano considerate qualcosa di impossibile per “romantici cavalieri moderni”, vuoi per la loro maggiore pericolosità, vuoi soprattutto perché il fattore umano era ancora predominante sulla tecnologia; ecco dunque perchè è davvero triste quanto poco, anche tra gli appassionati, le sue gesta siano oggetto di dibattito e di attenzioni, a maggior ragione per la quantità di piccole porte che il tedesco ha saputo “scardinare” nell’emergere: classe 1951, natio di Waiblingen (nell’allora Germania federale), Manfred arriva tardi (tra i 24 e i 25 anni) alle corse, che inizialmente sono poco più che un hobby, dopo aver lavorato a lungo come elettrauto per camion.

Gli inizi

Si comincia con le cronoscalate e con le gare di slalom a livello regionale: la sua vita cambia sul serio, come per un battito di ali di farfalla che gli spalanca un cancello, nel 1976, quando vince il trofeo monomarca Vw Scirocco Cup (4 vittorie per lui) e si fa notare, con annessa convocazione, da Jochen Neerpasch, gran capo della squadra corse della BMW; non male, per uno per uno che nemmeno un lustro prima era soltanto “un pilota della domenica”.

Gli anni dal 1977 al 1980 sono una regolare ma irresistibile ascesa verso gli eventi che contano: nel 1977 Winkelhock, da alfiere dello Junior Team con Marc Surer e “L’americano de Roma” Eddie Cheever, partecipa alle gare di turismo del Deutsche-Rennsport-Meisterschaft, vincendone la II Divisione, terzo nella classifica assoluta: la pietra miliare di quel 1977 rimarrà la vittoria tra i boschi del vecchio Hockenheimring, alla guida di una BMW BMW 320 gruppo 5 elaborata da Schnitzer, perfetto biglietto di presentazione per compiere il grande salto nelle formule, nel campionato di Formula 2.

Sul finire degli anni ‘70, se si fosse voluto arrivare in Formula 1, si doveva per forza passare per la Formula 2 e per i suoi motori da 2000 cm³, allora fucina di giovani piloti, e che in alcune gare poteva calcolare oltre quaranta partenti al via a giocarsi l’accesso in palpitanti sessioni di qualificazione che erano una competizione nella competizione.

Tra prototipi, Warhol e Formula 2

Il 1978 è tutto sulla March 782- BMW ufficiale (oltreché in altre gare di turismo), per un’annata importante ma conclusa con soli 11 punti, riscattata prontamente nella stagione successiva condotta alla guida di una vecchia Ralt della Cassani Racing e impreziosita dal terzo posto sul terribile Nürburgring, pista di cui sarebbe nel tempo un vero e proprio esperto; ecco, già che ci siamo rimaniamoci sul vecchio Nürburgring, anche detto Nordschleife: oltre 20 chilometri infernali, tra sali/scendi, curve strettissime e praticamente nessuna seria misura di sicurezza (ne sapeva qualcosa Niki Lauda che nel 1976 quasi ci aveva rimesso la vita).

È su uno scenario come questo, che non avrebbe sfigurato come sfondo per una saga di Wagner, che il nostro protagonista diventa famoso nel 1980, stagione nella quale Winkelhock cresce, affermandosi come un “pilota all’antica”, sempre pronto a saltare da una Formula 2 ad uno sport-prototipo, senza alcuna differenza, riempendo così tutte le domeniche e continuando a farsi conoscere in quasi tutte le categorie, calcando palcoscenici d’eccezione, come già la 24 Ore di Le Mans del 1979 a bordo di una BMW M1, addirittura con una livrea realizzata da Andy Warhol, come a reificare quel connubio tra arte “pop” e corse motoristiche, entrambi elementi mercificabili, brame preziose del capitalismo.

La leggenda del Nürburgring 1980

Alla fine, però, anche il 1980 porta soltanto un podio, un terzo posto a Pergusa sulla giallo-nera March-BMW ufficiale ma è sempre in quell’anno, precisamente il 27 aprile, che il nostro decide di giocarsi un jolly di appena 24” che lo avrebbe messo lì tra i grandi, indipendentemente da cosa il curriculum: la pista, ovviamente, è il vecchio Nürburgring, la vettura è la classica March 802 che però si contraddistingue per aver riportato un danno aereodinamico al musetto, a causa di una tamponata; può sembrare un particolare da nulla, ma in quel contesto, con quelle velocità, anche una banale mancanza aereodinamica può trasformare la macchina da un oggetto deportante, aderente al suolo (cosa che normalmente una vettura da corsa dovrebbe essere), in una entità portante; in parole povere, un velivolo: Winkelhock arriva infatti alla curva “Flugplatz” (beffardamente, “aerodromo” in lingua teutonica) ma a causa delle inefficienze aereodinamiche praticamente decolla, s’avvita e dopo aver compiuto un giro completo di 360° in aria, si rovescia al suolo, sbriciolandosi contro i pericolosissimi paletti in legno della recinzione.

Winkelhock però, incredibilmente o miracolosamente che dir si voglia, è illeso e si limita a sgattaiolare fuori dal rottame della March e a correre via oltre le reti (come volesse accedere ad un fortino per salvarsi) con il casco ancora in testa e la visiera storta, tra gli applausi attoniti della folla in quel punto presente; non è tanto l’incidente, che a distanza di quaranta anni incute ancora un miscuglio di orrore e paura a rubare la scena, quanto la glaciale freddezza con cui il pilota tedesco, dopo essersi allontanato da luogo del misfatto, si rigirava su sé stesso e cercasse di fare mente locale su quello che stava vivendo.

La Formula 1 e la lettera aperta

È in quel preciso istante che si capisce di che pasta fosse fatto l’uomo, ancor prima che il corridore: l’arrivo in F1 è datato sempre 1980, con una non qualificazione sull’Arrows (in sostituzione di Mass) a Imola, cui seguirà un 1981 completo in F2 (un paio di podi e un successo sfiorato a Hockenheim) e il ritorno in pianta stabile in F1, dal 1982 al 1985; quel mondo però, sembra non appartenergli del tutto e infatti non mancano altre apparizioni nell’endurance con la FordC100.

Non che i risultati siano latenti, giacché nel 1982, al volante della meravigliosa ATS numero 9, arrivano due preziosissimi punti in Brasile (frutto del quinto posto, in un periodo in cui i punti andavano solo ai primi sei classificati) ma è forse un’altra data, l’8 maggio del 1982, a cambiare per sempre, rafforzandola, la coscienza dell’uomo e contestualmente del pilota Winkelhock che con la parole –in un’inversione più unica che rara- seppe dare vigore ai fatti dell’incidente di due stagioni prima: quando l’8 maggio l’idolo dei ferraristi Gilles Villenuve, il più spericolato, il più folle ma anche il più geniale dei piloti, muore a seguito di un incidente a Zolder, e Winkelhock, uno dei meno intervistati del “grande circo”, lontano dalle luci della ribalta, quasi un invisibile, prende carta e penna decidendo, di suo pugno, di scrivere trenta righe per il periodico tedesco SportAuto e non certamente sui rapporti burrascosi che caratterizzavano il rapporto che aveva con il suo capo all’ATS, Günther Schmidt; scrive infatti il pilota, meglio, l’uomo:

Dopo la morte di Gilles sul circuito di Zolder, ho perso ogni energia e sono rientrato ai box dell’ATS (…) Quando ho visto Gilles per l’ultima volta, ormai era morto. Non poteva più compiere le sue magie in pista. Dopo Zolder avevo capito che in questo mestiere serviva fortuna, sola e semplice fortuna. Perché ci sono situazioni in cui è impossibile correggere e rimettere a posto le cose. Mi viene in mente l’incidente del 1980 al Nurburgring, quando la mia March cominciò a ribaltarsi al Flugplatz. Quel giorno pensai semplicemente: “Eccoci, stavolta ci siamo, questo è il mio ultimo istante” (…) Io non sono un eroe. No, non sono uno che pretende di guardare la morte fisso negli occhi, uno spavaldo o qualcosa di simile. Non voglio essere percepito in questa maniera (…); e ancora, riferendosi ai suoi cari: “Forse dipende dal fatto che io ho una famiglia: mia moglie Martina, il mio piccolo Markus e questo credo che sia un fattore decisivo. Sono molto legato a loro e anche per questo motivo cerco di scacciare il pensiero che possa capitarmi un incidente. Mi ripeto che voglio e devo evitarlo. Al di là di ciò che riserverà il destino”.

Sono parole disarmanti, sconvolgenti, in cui il nostro protagonista si mette totalmente a nudo, rigettando uno dei cliché che più si adattano a quel mestiere, o meglio, rimettendo l’uomo al centro, respingendo con parole ferme una certa retorica nauseabonda ma molto in voga, che vede certi mestieri come delle immense e velocissime macchine da soldi, cui appiccicare dell’etichette romantiche e melense che cancellano i veri valori e la vera genuinità che si nasconde dietro le grandi competizioni.

L’ultima folle impresa

Seguiranno altre tre stagioni in F1 (sempre con ATS e poi con la RAM nel 1985), inframmezzate dall’enorme occasione cestinata con la Brabham nel 1984 e per quanto possa sembrare incredibile, ripensando a quelle parole del 1982, in realtà all’appuntamento fatale Winkhelock arriva appena tre anni dopo: siamo a Mosport per la 1000 KM, è l’11 agosto 1985 e la vettura è una Porsche 962 privata, del team Kremer, con la quale Winkhelock (che corre per l’occasione in coppia con Surer) sta inseguendo una rimonta impossibile sulle Porsche ufficiali, dopo una toccata nelle prime fasi che gli aveva fatto perdere oltre 15’.

È un’impresa senza senso, inutile, qualsiasi altro pilota metterebbe la freccia a destra e si ritirerebbe oppure si accontenterebbe di un buon piazzamento, lui no e inizia a tirare senza un domani; arrivato l’ennesima volta alla curva 2 però, Winkelhock non gira e va a schiantarsi, senza un motivo, ancora una volta senza una logica, contro il muretto esterno: ci vogliono venti minuti per estrarlo e portarlo, in una corsa disperata, l’ultima della sua vita, all’ospedale di Sunnybrook, dove lotterà per un giorno intero, salvo poi arrendersi alle gravissime decelerazioni subite il 12 agosto, alle 20:30 ore italiane.

Esce così dalla scena un attore meraviglioso, che richiesto di un parere sui suoi piani dopo la gara di Estoril 1984, si era espresso semplicemente dicendo che non avrebbe fatto carte false per restare in F1 e che lui era semplicemente un pilota, accentando una realtà, quella appunto di fare del pilota il proprio mestiere, che riteneva potesse esser un sogno soltanto pochi anni prima.

Quando al giorno d’oggi ripensiamo a fortissimi piloti tedeschi che hanno vinto in F1 negli ultimi sei lustri, dovremmo più spesso ricordarci di questo ex conduttore dell’ATS, che purtroppo è stato offuscato da un altro protagonista tedesco, anche lui morto con gli sport-prototipi, appena un anno dopo, a Spa-Francorchamps, quel talentuosissimo Stefan Bellof che secondo molti esperti aveva tutte le carte in regola per essere il primo grande campione tedesco in F1; ecco perché il senso e il ruolo della memoria e della storia non possono mai esser messi da parte, nello sport come nella vita.

Un epilogo tanto suggestivo quanto commovente

C’è però un’ultima appendice, questa romantica davvero: il “piccolo” Markus della lettera, è nel frattempo divenuto anch’egli un pilota professionista, sulle orme del papà e dello zio Joachim Winkelhock (in F1 nel 1989 con l’AGS) e ha all’attivo (in una carriera fatta soprattutto di DTM e GT) un unico gettone in F1 nel Gran Premio d’Europa 2007, corso con la traballante Spyker e concluso dopo tredici tornate per un problema all’impianto idraulico; nonostante tutto però, complice l’azzardo di un cambio gomme anticipato alla fine del giro di formazione, in previsione dello scroscio di pioggia che stava per arrivare, l’arancione vettura di Markus Winkelhock si ritrova incredibilmente leader della corsa alla seconda tornata, avendo poi mantenuto il primato nel nubifragio fino alla bandiera rossa e anche per qualche giro (fino al settimo), prima di cedere il passo agli altri protagonisti e poi fermarsi definitivamente; un bel modo per “bagnare” quell’esperienza e per chiudere, idealmente, un cerchio che una trentina di anni prima si era aperto  lungo le asperità del Baden-Württemberg.

 

 

Lorenzo Proietti

Lorenzo Proietti su Barbadillo.it

Exit mobile version