Giornale di Bordo. Il caso della caserma di Piacenza: sono solo mele marce. Però potiamo bene il frutteto

Una volta la selezione per entrare nell’Arma era severa non tanto sotto il profilo culturale, ufficiali a parte, ma sotto il profilo morale

L’inchiesta di Piacenza

Una volta i Carabinieri per gli italiani erano “quelli delle barzellette”. I più intelligenti fra loro ci ridevano sopra. Lo storico militare Massimo Mazzetti, ben introdotto fra i vertici della Benemerita, mi confidò quarant’anni fa che il generale Enrico Mino, comandante generale dell’Arma, aveva intenzione di pubblicare un volumetto con le più riuscite storielle sui militi; probabilmente l’avrebbe fatto, se non fosse morto in un tragico incidente di volo. C’è chi scorge in quel proliferare di barzellette una manovra dei comunisti, che in quel modo intendevano ridicolizzare la Benemerita, presidio dello Stato anche nell’ordine pubblico, ma ne dubito, perché nel dopoguerra la bestia nera del Pci (e la pupilla di Scelba) era la Celere. Io piuttosto vi scorgo un titolo di merito per l’Arma: in una nazione in cui gli onesti sono considerati dei fessi, chi fa il suo dovere senza discussioni, chi applica la legge alla lettera, senza “interpretarla” a modo suo a favore degli amici, rischia di cadere nel ridicolo.

Purtroppo in questi giorni su quanto è avvenuto nell’Arma c’è poco da ridere. È vero che le indagini sono ancora in corso, ma quanto avveniva nella stazione del Carabinieri di Piacenza Levante – la prima stazione dell’Arma sequestrata dall’autorità giudiziaria nella storia italiana – non può non indurre a pensare, anche alla luce delle intercettazioni telefoniche. Carabinieri che trattengono parte degli stupefacenti sequestrati per rivenderli ai pusher e che addirittura, nei giorni della generale chiusura di tutte le attività, e mentre imperversa il Coronavirus, scorrazzano gli spacciatori agevolandoli nei traffici, appuntati che si permettono un tenore di vita spropositato, non meritano indulgenza.

Si potrebbe obiettare che una stazione è solo una stazione, che un appuntato è solo un appuntato, che un maresciallo è solo un maresciallo e che l’Arma, con i suoi centomila uomini, è molto di più. È vero. Ma quello di Piacenza non è il primo caso a vedere coinvolti uomini della Benemerita. Per esempio quanto è successo anni fa a Firenze, con un carabiniere e un vicebrigadiere che hanno accompagnato alle quattro del mattino con l’auto di servizio due studentesse americane ubriache approfittandosi poi della situazione è indice – sia stato vero stupro o no – di un clima di lassismo morale che un tempo sarebbe stato considerato inconcepibile nell’Arma. I due militi sono stati radiati ancora prima che la sentenza passasse in giudicato, ma quello che è avvenuto resta ugualmente grave.

Il paradosso è che, a differenza che in passato, quando fare il carabiniere era per molti giovani un ripiego, vista la severa disciplina e i bassi stipendi, oggi la situazione è molto diversa. Le migliori condizioni contrattuali e anche la chiusura del mercato del lavoro fanno sì che siano moltissimi i ragazzi, anche diplomati e laureati, che accettano di fare il volontario a ferma breve nell’Esercito per un anno, condizione preliminare per poter entrare nell’Arma. E di solito la presenza di un maggior numero di candidati dovrebbe consentire una selezione più severa.

Ma forse il nodo è proprio qui. Una volta la selezione per entrare nell’Arma era severa non tanto sotto il profilo culturale, ufficiali a parte (basti pensare al vecchio monito: “studia, se no vai fare il carabiniere”), ma sotto il profilo morale. Per entrare nella Benemerita non bastava avere la fedina penale pulita, ma i reclutatori verificavano i precedenti familiari per più generazioni. Inoltre all’interno dell’Arma veniva data molta importanza a inculcare nel personale un profondo senso del dovere e dell’obbedienza. I futuri marescialli non studiavano diritto privato e non prendevano una laurea breve, ma arrivavano al sospirato “binario” dopo anni di pedinamenti, di ronde a piedi sotto la pioggia o sotto il sole, di logoranti servizi di ordine pubblico.

La situazione è cominciata a cambiare con gli anni ’80, quando il ministro socialista Lagorio allentò i filtri di selezione del personale e istituì le rappresentanze militari, i cosiddetti Cocer. Lagorio è stato uno dei migliori ministri della Difesa; nella sua carriera militare si era fermato ad “avanguardista cavallerizzo”, ma, figlio di un ufficiale di carriera, rispettava certi valori. Le sue riforme furono scelte obbligate, ma la sindacalizzazione di fatto dell’Arma avrebbe generato effetti positivi come negativi. Da un lato vennero attenuate certe asprezze della vita di caserma (i carabinieri ancora negli anni ’70 facevano la corvée come soldati di leva), dall’altro condusse a una rincorsa rivendicativa con la Polizia di Stato. Cominciai ad accorgermene negli anni ‘80 quando vidi che i carabinieri quando fermavano un’auto non salutavano come una volta portando la mano al berretto, o scoprii per caso (me lo raccontò la fidanzata) che uno di loro aveva cercato di farsi cancellare dai Vigili una multa esibendo il tesserino: in altri tempi avrebbe nascosto la sua appartenenza all’Arma vergognandosi come un ladro di essere venuto meno al dovere. Oggi è esperienza comune vedere carabinieri di ronda in città, con la bandoliera, camminare fuori passo. Sciocchezze, obietterà qualcuno, ma per me indici di una smilitarizzazione psicologica che su personalità fragili può avere effetti devastanti, come pare sia successo a Piacenza. Personalmente, inoltre, non credo che la scelta di affidare il comando dell’Arma non a un ufficiale dell’Esercito, ma a un carabiniere, sia stata felice. E questo non perché l’attuale comandante, che è solo mio omonimo, non sia una persona onestissima e qualificata, ma perché a mio giudizio la vecchia prassi, oltre a ridurre l’autoreferenzialità, aveva un alto valore simbolico: ricordava ai Carabinieri che prima di essere dei poliziotti erano dei soldati, e che i loro predecessori avevano combattuto gloriosamente su tutti i fronti. Così come un valore simbolico aveva la vecchia uniforme di servizio estiva, color kaki come quella dell’Esercito.

Intendiamoci, la stragrande maggioranza dell’Arma è senz’altro sana e la infelice frase di Ilaria Cucchi, secondo cui non si può parlare solo di mele marce, è da respingere sdegnosamente. Il frutteto resta integro, ma forse ha bisogno di un’energica potatura. Altrimenti si rischia di dover rimpiangere i vecchi carabinieri delle barzellette, che facevano ridere ma almeno non facevano piangere.

 

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

Exit mobile version