“La tragedia del vivere umano”: Unamuno, Don Chisciotte e la filosofia

L'introduzione di Giovanni Sessa al volume sull'autore spagnolo di un grande classico delle letteratura

Jonathan Pryce, Don Chisciotte nel film di Terry Gilliam, “L’uomo che uccise Don Chisciotte”

Pubblichiamo uno stralcio dall’ampia introduzione di Giovanni Sessa, Don Chisciotte e la filosofia, al volume del pensatore spagnolo, Miguel de Unamuno, La tragedia del vivere umano, OAKS editrice.    

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Per entrare, con cognizione di causa, nelle dense pagine de, La tragedia del vivere umano, è necessario contestualizzare storicamente la formazione della filosofia del suo autore, Miguel de Unamuno, tenendo nel debito conto le correnti di pensiero con le quali fu inevitabilmente costretto a confrontarsi e che furono, per usare le parole di Ortega y Gasset, la sua «circostanza». Sul finire del secolo XIX era già chiaro, almeno alle menti più accorte, che la filosofia avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle le sabbie mobili del dualismo soggetto-oggetto, che erano state riproposte, sulla scena intellettuale, dalla diffusione del positivismo. L’esaltazione del fatto, della dimensione oggettuale-naturale, la cui apprensione conoscitiva poteva essere messa in atto solo dalla ratio «positiva», non poteva soddisfare l’ansia di assoluto che stava diffondendosi. La ricerca intellettuale autentica richiedeva, a gran voce, che fossero rimesse al centro della speculazione, al di là del determinismo materialista, la dimensione della libertà e della creatività.

   Ecco sorgere allora, a muovere dagli Usa, il «pragmatismo», movimento dal quale, lo stesso de Unamuno fu attratto. Era convinto, il nostro autore, che sarebbe stato necessario risolvere: «in una superiore unità il vecchio dualismo soggetto-oggetto, e non con la semplice negazione di uno dei due termini per l’altro», come nelle corde di certo neoidealismo, soprattutto di matrice crociana . In fondo, lo stesso pragmatismo, in nome del primato dell’azione, della prassi, e al fine di superare ogni sterile forma di intellettualismo, si risolveva in nuovo primato del soggetto. A differenza dei monismi naturalistici e allo scopo di scongiurare un possibile esito scettico del percorso pragmatista, alcuni esponenti del movimento, nel nome della volontà di credere, finirono per riproporre la necessità di un’effettiva uscita di sicurezza dal dualismo e lasciarono aperta la strada a   soluzioni disparate. Si trattava di: «intenderla questa natura […] nel suo farsi, nel suo eterno divenire, nella sua intima vita che è la vita dello stesso soggetto che la pone […] e si trattava di render l’uomo libero e responsabile». E’ da tale crocevia speculativo che de Unamuno inizia a pensare, a costruire la propria visione del mondo. Il compito prioritario che la filosofia, a suo dire, doveva assumersi, stava nel tornare ad interrogarsi sulla vita dell’uomo e intorno al posto che questi avrebbe dovuto tenere nell’universo. Ogni uomo, infatti, rileva de Unamuno, sente: «palpitare la vita dell’universo col ritmo del proprio cuore».

Una visione religiosa della vita è quella cui anela il pensatore. Simbolo di tale incipit vita nova, di una vita rinnovata e persuasa, è la figura di Don Chisciotte, la creatura immortale nata dalla genialità di Cervantes, con la quale de Unamuno andò identificandosi. Don Chisciotte-de Unamuno è uomo nobilitato dall’afflato religioso, che, con serietà, affronta i problemi che la coscienza gli pone (lo testimonia, come visto, la biografia del filosofo), carico di disprezzo per il mero intellettualismo, per il logocentrismo incapace di dar luogo ad una prassi conseguente, in quanto deprivato della metamorfica passione di verità, incapace di rifare: «tutto l’uomo sciogliendosi in pienezza e in potenza di vita morale». Di contro alla «scienza dell’intelletto», che distingue, divide e parla del e sul mondo, Don Chisciotte-de Unamuno propone la «scienza del cuore», che pensa non con la sola testa, ma con il corpo, con la viva carne, con l’anima. Del resto, de Unamuno, sostenne con forza, a proposito della creazione poetica: «Se la poesia non ci libera della logica, a null’altro ci può servire». Questa la «follia» di Don Chisciotte, la sua costitutiva utopia. Egli si getta nel mondo per mostrare, con le sue sole forze, con l’esempio, la possibilità di un’altra vita. Naturalmente, come accadde a de Unamuno, anche il Cavaliere errante dovette subire lo scherno e il dileggio egli uomini: «stupidi per eccesso di sensatezza», chiusi nella cittadella del pregiudizio, nelle abitudini macchinali. Essi sono simili agli «uomini-ombra», mirabilmente tratteggiati da Michelstaedter, in uno dei suoi schizzi a lapis più riusciti, durante il passeggio in Piazza Grande a Gorizia: uomini che non sono, perché non vogliono essere, privi di concreta esistenza, che si aggirano nel deserto della vita, che si sottraggono al continuo creare in cui, di fatto, la vita consiste.

 Don Chisciotte nutre la propria presenza nel mondo di una sola certezza: essere uomini è un compito, una possibilità, per essere realmente esistenti bisogna nascere in spirito. Il cavaliere errante realizzò, nell’agire, nell’andare incontro all’avventura del mondo, quell’ ideale che aveva appreso ad amare dalla letteratura cavalleresca, quel mondo che agli uomini di «buon senso» sembra morto da tempo, ma che in realtà, in quanto origine è sempre possibile. Don Chisciotte è figlio di se stesso, fedele al suo Sé eterno, si è liberato della propria persona determinata, per caricarsi sulle spalle l’universale umanità, divenendo Persona, rinascendo in spirito. Questo è il Cavaliere errante con il quale de Unamuno si identificò. Come Don Chisciotte, anche il nostro filosofo sapeva, a differenza di quanto recita il noto detto latino, primum vivere, deinde philosophari, che vivere è filosofare, in quanto filosofia: «è la stessa coscienza che la vita ha di sé […] vita tutta nostra, tutta spirituale […] sogno […] eterna conquista di un mondo che non ci è dato e ci fronteggia».

Don Chisciotte di Gipi

Il Cavaliere errante di Cervantes possiede altri tratti, che lo rendono filosoficamente rilevante. Li ha messi in luce Massimo Donà, in un suo recente studio. Don Chisciotte emerge da questa esegesi quale archetipo dell’eroe barocco, atto a riconoscere l’illusorietà del reale e, in uno, la sua magica bellezza. Libera, nell’incomprensione generale, la propria vita dal domino delle universalità che il logocentrismo ha imposto attraverso il primato del concetto e dell’identità, concedendosi e concedendoci di riscoprire la sorprendente individualità delle cose. Una individualità paradossale, nella quale, in realtà, si dice sempre il medesimo, il non dell’origine, il nulla di ente, il principio infondato. Don Chisciotte fa re-incontrare al lettore la meraviglia del mondo, quella meraviglia da cui, stante la lezione platonico-aristotelica, sarebbe stato originato il filosofare. Una meraviglia, si badi, che nulla ha a che fare con le simmetrie concettuali che tutto spiegano, ma che rinvia alla natura intrinsecamente magica e poietica della realtà. Per questo, la creatura di Cervantes, ha natura duplice. Egli, infatti, è presentato dallo scrittore spagnolo tanto come protagonista, quanto come lettore del libro (nella seconda parte del capolavoro di Cervantes): «di lui non si sarebbe potuto dire nulla di univoco e di  certo […] Don Chisciotte era la prova […] di come non fosse più possibile determinare la proporzione secondo cui gli opposti vengono ospitati dal reale; egli incarnava infatti la loro perfetta con-fusione» . 

   Quello di Don Chisciotte si configura, pertanto, come agire folle in quanto il mondo e le cose gli appaiono bisognose di liberazione dalla gabbia del fenomenico, dalla pesantezza cosale loro imposta dalla logica che distingue e oppone. L’agire eroico del cavaliere restituisce dinamicità al reale, è un agire mai pago di alcun risultato, in quanto sostenuto da una idea incondizionata di libertà, che si lascia alle spalle la visione teleologicamente orientata a un fine determinato. La libertà gli consentiva: «di sfidare tanto il principio di non contraddizione quanto quello di contraddizione, e di riconoscere quello della “misericordia” quale unico vero attributo divino» . Ecco, qui siamo proprio nel cuore vitale del dichiarato «chisciottismo» di de Unamuno, l’agnizione della condizione tragica della vita umana emblematicamente descritta nelle pagine che seguono, che lo indusse ad un atteggiamento etico di compassionevole rispetto per ogni ente di natura.

Come ebbe a precisare Piero Pillepich nella Nota del traduttore che accompagnava la prima edizione di questo libro, non esiste un’opera di de Unamuno che abbia per titolo, La tragedia del vivere umano. Questo titolo, che esplicita il senso ultimo del pensiero del filosofo, fu scelto da Pillepich stesso per questa silloge: «di operette, filosofiche la più parte, tra le più vivaci e battagliere […] inedite finora nella traduzione italiana, e tratte dalle opere del pensatore basco». Il libro viene ora finalmente riproposto, per lodevole iniziativa della OAKS editrice. Da esso il lettore potrà trarre il distillato del pensiero unameano e dello stile dialogico in cui fu espresso.

*Miguel de Unamuno, La tragedia del vivere umano, OAKS editrice, euro 18,00

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Giovanni Sessa

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