Giornale di Bordo. “Il bianco sole dei vinti” di Venner e la traduzione del 1978-79

La rivista non confomrista "Andere-Denken": una scelta controcorrente

Dominique Venner e Yukio Mishima

Dominique Venner e Yukio Mishima

Dominique Venner

La singolare coincidenza di due eventi mi ha indotto in questi giorni a ritornare con la memoria a un periodo della mia vita lontano ormai più di quarant’anni. Uno è il settimo anniversario del profetico suicidio di Dominique Venner sul sagrato della cattedrale di Notre Dame, simbolo profanato della nostra secolarizzata cristianità occidentale, un anniversario cui “Barbadillo” ha dedicato fior di commenti e commemorazioni. L’altro è l’arrivo, nella mia cassetta delle poste, di un fascicoletto quasi clandestino, con in copertina un dipinto di Fortunato Depero e al suo interno una scelta di articoli e interventi legati in senso lato alla cultura di destra, dagli anni ’70 ai giorni nostri. Il titolo della pubblicazione. “Andere-denken”, è criptico come l’invio. Il suo significato è pressappoco “dicono gli altri” e in effetti non è inappropriato per un’antologia.

Il mio legame con Venner è di carattere, se così può dirsi, “mercenario”. Fra il 1978 e il ’79 tradussi per Akropolis – una delle tante case editrici che ruotavano nella galassia della Nuova Destra – un suo saggio dedicato alla guerra di secessione americana, uscito nel 1980 sotto il titolo Il bianco sole dei vinti. Non amo fare il traduttore, ruolo ingrato che paragono a quello dell’anestesista nelle sale operatorie e del rigorista nei campi di calcio: se tutto va bene il merito è degli altri, altrimenti la colpa è tutta loro. Mal pagato, poco considerato (una volta non ne veniva nemmeno riportato il nome sul frontespizio, come avveniva per i doppiatori), è spietatamente preso di mira per le topiche che gli sfuggono. Per esempio, come mi ha ricordato a distanza di oltre mezzo secolo una insigne studiosa di Robert Brasillach, la prima versione italiana dei Sette colori, pubblicata nel 1966 dalle edizioni del Borghese, traduceva il francese peintre de bâtiment (letteralmente pittore edile o imbianchino) nel più lirico ma inappropriato “pittore di bastimenti”. Se è troppo aderente al testo, una traduzione è accusata di essere pedestre, se è troppo libera, l’autore viene criticato per essersi voluto sovrapporre all’originale.

Alla base della mia scelta di tradurre Venner (ma anche Il male americano di Locchi e de Benoist, e, senza essere citato nel frontespizio, L’intervista sull’etologia di Konrad Lorenz, recuperata da un numero di “Nouvelle Ecole”), c’erano anche motivazioni economiche. Congedatomi dal militare nel 1977, con una laurea “debole” in Lettere, desideroso di non gravare sui miei familiari, le cui pensioni di statali erano state erose dall’inflazione, cercavo tutte le opportunità per arrotondare gli aleatori proventi delle prime supplenze. Nonostante un trenta e lode al mio ultimo esame all’università e un trenta al concorso di lettore d’italiano, sostenuto alla Farnesina, avevo del francese quella conoscenza buona solo sotto il profilo morfologico e grammaticale che la scuola dell’epoca mi aveva dato in cinque anni di studio. Vorrei aggiungere che appartengo a una delle ultime generazioni francofone, formatesi nel tempo in cui le sezioni A dei ginnasi avevano quasi sempre cattedre di francese e persino negli istituti tecnici le cattedre d’inglese erano minoritarie (sussisteva – eredità, presumo, dell’Asse – un certo numero di cattedre di tedesco, i cui professori erano in genere temuti per la loro elmochiodata severità; di uno di loro tracciò l’indimenticabile ritratto Vittorio Mathieu, in un elzeviro sul “Giornale”).

Motivazioni economiche a parte, a indurre vari piccoli e squattrinati editori di area a tradurre Il bianco sole dei vinti insistevano altri fattori. C’era il peso di un saggio come Fascismo ’70: Sparta e i Sudisti, pubblicato nel 1969 dal cognato di Brasillach, Maurice Bardèche, e prontamente tradotto dalle edizioni del Borghese; c’era quella romantica dedizione alla memoria dei vinti che ci faceva tifare per gli sconfitti di tutte le guerre, per Maria Stuarda contro Elisabetta, per gli indiani contro i cow boy, per i “briganti” contro i “piemontesi”. E c’era il fatto che Venner era un esponente di spicco della Nouvelle Droite, anche se con un curriculum da vecchia destra: volontario nella guerra d’Algeria, militante dell’Oas, animatore di gruppuscoli nazionalisti, fondatore del GRECE con Alain de Benoist e poi distaccatosi dalla politica, salvo l’estremo commiato da un’Europa che non era più la sua. Il suo libro mi parve un esempio di buona divulgazione storica, politicamente schierato dalla parte della lost cause sudista; dovendo consigliare uno studio sull’argomento preferirei però indicare la Storia della guerra civile americana di,Raimondo Luraghi, il capolavoro di uno studioso di formazione marxista pronto a riconoscere con estremo coraggio le ragioni  della Confederazione. Ma il ricordo di quella traduzione conserva per me l’aroma di una stagione della vita difficile ma ricca di entusiasmi.

Al mondo incantato del Sud mi riporta anche il primo degli articoli antologizzati nel fascicoletto che mi è arrivato pochi giorni fa. È uno scritto di  Giorgio Nelson Page, che fa da introduzione a un’inchiesta sulla cultura di destra pubblicata dallo “Specchio”, il settimanale da lui diretto. Nelson Page era un personaggio singolare. Figlio di madre italiana e di padre statunitense ma soprattutto virginiano, nipote di un ammiraglio confederato che consegnò la sua nave agli spagnoli per non cederla al momento della resa ai nordisti, si naturalizzò italiano, aderì al fascismo, fu un alto dirigente del Minculpop, finì a guerra finita in campo di concentramento, salvo essere più tardi reintegrato nei ruoli ministeriali. Pubblicò romanzi di successo, come L’americano di Roma, Il nuovo americano di Roma, Rapsodia americana, riedito da Volpe negli anni ‘70. Non rinnegò mai la sua fede sudista, tanto da fare una difesa del Ku Klux Klan che gli fece rischiare un procedimento giudiziario (si salvò perché all’epoca non c’era la legge Mancino). Nel 1958 fondò “Lo Specchio”, che rispetto al “Borghese” post-longanesiano e al “Candido” di Guareschi e poi di Pisanò si caratterizzava nella triade dei settimanali di destra come un giornale fra il satirico e il mondano in grado di piacere al “commenda” milanese di Profumo di mare come ai funzionari di gruppo A dei ministeri romani. La rubrica “cronaca bizantina”, ricca di pettegolezzi e fotografie rubate dai paparazzi, secondo qualcuno inventò la dolce vita romana come fenomeno di costume: correva voce che la figura di Marcello Rubini, il cronista interpretato da Mastroianni nel celebre film di Fellini, fosse ispirata a un giornalista di quel settimanale. Correva voce pure che a finanziare il foglio, che con il suo grande formato ricordava “Il Mondo” degli esordi, ci fosse Giulio Andreotti. È certo, comunque, che ai tempi del primo centro-sinistra lo “Specchio” prendeva di mira il suo avversario Fanfani, con strisce a fumetti sulla “Banda Bassotti” che alludevano alla non eccelsa statura dello statista aretino. Ed è un dato di fatto che quando Andreotti sterzò a destra a metà anni ’70 i finanziamenti vennero meno e il settimanale dovette chiudere.

L’articolo di Nelson Page riportato in apertura da “Andere-Denken” è un po’ involuto, ma il dibattito che segue colpisce per la varietà delle voci, da Alfredo Cattabiani ad Augusto Del Noce, da Julius Evola a Quirino Principe, ma anche, ahimè, perché molte delle doglianze espresse dagli intervistati sono valide ancora oggi. L’egemonia della cultura di sinistra, nonostante il crollo del comunismo, anzi, soprattutto dopo di esso, si è per certi aspetti rafforzata e la destra non può contare nemmeno su quelle case editrici, come Volpe, Il Borghese e soprattutto la Rusconi Libri di Cattabiani, che in quel primo scorcio degli anni ’70 erano accusate di aver avviato un’opera di “restaurazione culturale”.

Il numero della rivista prosegue con una scelta di testi eterogenei, miranti a fornire materiali per la ricomposizione di un pensiero di destra (in certi casi di estrema destra) in molti casi dimenticato. Alcuni di essi risalgono agli anni ’70, come l’intervista su “Linea” di Pino Rauti e Alessandro Di Pietro a Konrad Lorenz, altri sono recentissimi, come i colloqui con De Benoist e Jean Raspail. Cattolici e neopagani, neodestri e paleo-destri come Le Pen convivono in questi testi, non reperibili su internet e provenienti dall’archivio personale del direttore, l’architetto veronese Daniele Agnelli. Non manca nemmeno un vivace interesse per il futurismo, testimoniato, oltre che dalla copertina, da un coraggioso contributo di Paul Virillio sull’influenza sul fascismo del movimento di Marinetti, presentato nel 1986 in un convegno al Centro Pompidou.

Ho l’impressione che la rivista, con cui si può prendere contatto all’indirizzo di posta elettronica andere.denken@gmail.com, persegua almeno due obiettivi; o meglio li perseguirà, visto che quello attuale è un semplice numero zero. L’obiettivo esplicito è “far conoscere un pensiero che nella vulgata odierna è troppo spesso confinato in un ambito scomodo e altamente infiammabile di destra reazionaria”. Quello implicito, altrettanto se non più ambizioso, potrebbe essere rivendicare, contro l’effimera labilità del web, la dignità della pagina stampata. È una sfida non facile, per motivi non solo pratici ma economici. Per il momento non posso che fare gli auguri a chi l’ha lanciata ringraziandolo per avermi consentito di rivivere, con gli scritti raccolti nel primo fascicolo, alcuni dei quali avevo letto alla loro prima uscita, il fervore di idee che animarono la mia prima giovinezza. Una giovinezza alla quale, “più disingannato che rinsavito” come il Didimo Chierico del Foscolo, non posso fare a meno di guardare con una vena agrodolce di nostalgia.

 

Enrico Nistri

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