Il punto (di G. Del Ninno). Coronavirus e sobrietà: la povertà è “bella” solo se scelta

Dopo la breve sosta in versi, riprendo il mio cammino circolare in prosa, per questo pellegrinaggio domestico forzato. E così, mentre ci muoviamo come sul plastico di un trenino elettrico o come figurine di un diorama animato – sempre gli stessi personaggi, sempre lo stesso scenario – torno a riflettere su questa epidemia che, come sentiamo ripeterci, non ha precedenti nella storia recente. Eppure… Sollecitando i meccanismi della mia memoria personale e familiare, qualche precedente lo trovo. Approfondisco un poco qualche filone tematico, azzardo qualche confronto da profano, ricerco motivazioni nelle differenze fra quei lontani stili di vita e quelli attuali.

Mi tuffo in apnea nel mio passato remoto e arrivo ai miei dieci anni, ai miei primi ricordi di un’epidemia; anzi, di più d’una. Sì, mi ricordo il terrore che m’incuteva la prospettiva di essere colpito dalla poliomielite: restare zoppo, non poter correre e giocare con i miei amici di scuola e di cortile, magari essere additato e schernito nella mia diversità – si sa, i bambini sanno essere crudeli… – esporre gambe ripugnanti sulla spiaggia e nel mare della mia amata Ischia… Un terrore che si acuiva ad ogni minimo segnale inviatomi dal mio corpo, una dolenzia passeggera, un dolorino sulla tibia… E non fidarsi delle rassicurazioni di mamma e papà, leggere nei loro occhi l’ombra di una preoccupazione… Quanto durò? Non lo ricordo, né ricordo contagi nella mia cerchia di conoscenze, e comunque tutto finì col la diffusione del vaccino di Sabin.

E poi? Certo, la “febbre asiatica”, la terribile epidemia che, sempre nel 1957, afflisse il pianeta, provocando un milione e mezzo di morti – di cui 30.000 in Italia – e scomparendo nel 1960, grazie al vaccino prodotto già a fine 1957. Ebbene, non ricordo alcun distanziamento sociale, anzi, nessun allarme sociale: la vita continuò, quell’anno e i successivi, secondo i suoi normali ritmi. Tutti al lavoro, tutti a scuola, tutti a divertirsi, ciascuno, ovviamente, secondo le sue possibilità e la cultura del tempo.

E allora, si andava al cinema – magari in “seconda visione”: la prima era per i più abbienti… – a vedere i film di Totò o quelli di Don Camillo e Peppone (ma erano usciti anche film “d’autore”, come “Le notti di Cabiria” di Fellini, “Il grido” di Antonioni, “Le notti bianche” di Visconti); e al cinema andavo con i miei genitori o con i miei nonni, in sale affollate e sature di fumo (sì, era consentito accendersi una sigaretta dopo l’altra…). Questo vuol dire che l’industria del cinema non si era fermata (e che la salute non era ancora diventata un’ossessione)…

Si fischiettavano i motivetti vincitori a Sanremo (“Corde della mia chitarra” e “La casetta in Canadà”) o a Napoli (sì, c’era ancora, e furoreggiava, il festival della canzone napoletana): “Malinconico autunno” e “Lazzarella”. Si andava allo stadio, e lì ci si abbracciava ad ogni gol della propria squadra. Si andava in pizzeria (i ristoranti erano per le grandi occasioni) e le case si riempivano di parenti e amici, per i compleanni o per i balli in famiglia. Escono – e vengono venduti e letti – romanzi come “Quel pasticciaccio brutto di via Merulana” “L’isola di Arturo”, e “Il dottor Zivago”, e poi “L’erotismo” di Bataille e “Le ceneri di Gramsci” di Pasolini…

E’ vero: c’era soltanto la radio, e c’erano i giornali; quindi, niente tv e, meno che mai, internet e i “social”, con i loro tam tam nevrotici. Nessuno sapeva niente di “immunità di gregge” o di letti per terapie intensive. La notizia della “febbre asiatica” si trovava, ma non avevi il bollettino quotidiano di oggi: la dovevi cercare o in fondo alle prime pagine, magari sotto quelle in evidenza sulle dimissioni del governo Segni o l’insediamento del governo Zoli, oppure nella cronaca, accanto alla morte di Toscanini o all’abbandono di Soraya da parte dello Scià di Persia. Questo non era un modo di esercitare la censura, ma forse solo di imparare a convivere con quel virus. Proprio come stanno cercando di inculcarci oggi, ma in maniera massiccia e ripetitiva.

Da quanto ricordo, eravamo tutti un po’ più sereni, se non addirittura felici, ognuno impegnato, per la sua parte, a proseguire in quel lavoro collettivo di ricostruzione iniziato dopo la fine della guerra; e noi bambini ad alternare scuola, giochi da tavolo o, stagione permettendo, all’aria aperta – magari nel cortile di casa o in strada – e abitudini familiari. E sì che quell’epidemia ne aveva causati di morti! Solo che alla morte eravamo più “abituati”: c’era stata la guerra, ma anche in tempo di pace l’aspettativa di vita non era esaltante, non c’erano tanti medicinali e vaccini (per dire: era ancora diffusa la tubercolosi), si viveva con meno comfort di oggi (altro che lavatrice e lavastoviglie!) e si moriva prima, anche senza l’asiatica. Del resto, i preti e la religione assistevano più la tua anima che il tuo corpo, e i più intelligenti non si limitavano ad agitare lo spauracchio dell’inferno…

Quanto a quegli usi frugali, a prescindere dalla modestia delle risorse mediamente in circolazione, di alcune piacevolezze della vita – non solo gastronomiche – non eravamo proprio a conoscenza. Crociere? Settimane bianche? Resort esotici? Di là da venire e, forse, già paradisi perduti. Un’amica mi ha passato un articolo scritto da Goffredo Parise nel 1974, in piena contestazione del consumismo trionfante, in stile Pasolini. Fustigazione dei costumi, elogio, appunto, della frugalità, e così via. Argomentazioni condivisibili sotto molti profili, ma che oggi suonano funeree: la povertà può essere bella ed eticamente apprezzabile quando rappresenta una scelta deliberata, come fu, ad esempio, per San Francesco; non certo quando è frutto della mancanza di avvedutezza dei singoli o addirittura dei dirigenti – politici ed economici – di un Paese.

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Giuseppe Del Ninno

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