Libri. “Il problema politico dei cattolici tra Italia e Germania” di Turco

Italia e Germania

Poco più di un anno fa, il 18 gennaio 2019, cadeva il centenario della nascita del Partito Popolare Italiano. Paginate di giornali hanno fatto da sfondo ad analisi più o meno dettagliate, a ricordi di stagioni politiche in cui il “popolarismo” costituiva l’ossatura del Paese e, infine, a celebrazioni da parte di protagonisti politici che di quella storia sono in qualche modo figli. Sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia rilevava come «Nella sostanza, insomma, l’esperienza del cattolicesimo politico italiano e del suo partito è stata un’esperienza democratico-liberale», anche perché, a parte la contrarietà al divorzio, «in quanto tale poi non aveva nulla di specificamente cattolico».

(https://www.corriere.it/19_gennaio_17/luigi-sturzo-ppi-cento-anni-futuro-cattolici-politica-80194010-1a89-11e9-b5e1-e4bd7fd19101.shtml) 

L’esperienza dei cattolici in politica servì dunque a cementificare la coesione del popolo italiano instradandolo verso il “centro”, in modo da isolare le estremità (rappresentate dai neofascisti e dai comunisti), dando così inizio a quella stabilità istituzionale necessaria alla stagione delle riforme in un assetto, ripetiamo, spiccatamente e dichiaramente “democratico-liberale”. L’editorialista del quotidiano di via Solferino, il mese successivo, in una intervista rilasciata nel numero di febbraio di “Vita pastorale” si augurava che la voce dei cattolici in politica tornasse a stagliarsi forte poiché «chi vive l’attuale situazione del Paese con l’angosciata passione che si richiede avverte quanto manchi oggi alla vita pubblica italiana l’apporto dei cattolici. E avverte quanto ciò sia negativo» soprattutto perché la crisi attuale «appare sempre di più una crisi anche di valori». (https://www.agensir.it/quotidiano/2019/2/2/cattolici-e-politica-galli-della-loggia-giornalista-una-voce-che-manca-al-dibattito/)

Il professore Giovanni Turco nel suo ultimo lavoro sviscera nei suoi aspetti più scoscesi e alla luce della razionalità, concepita classicamente (intendendola quindi da un punto di vista assiologico e permanente, ossia non circoscritta ad una determinazione di tempo o di luogo), «il problema politico dei cattolici tra penisola italica ed area germanica» (G. Turco, Introduzione, in Il problema politico dei cattolici tra Italia e Germania. Un profilo essenziale, Solfanelli, Chieti 2020, p. 7.).

«La traiettoria italica e germanica – egli scrive – hanno elementi di discrepanza e di analogia, dovuti anzitutto alla diversa sedimentazione storico-politica. In entrambi i casi, però, emerge come decisiva la questione dell’intelligenza dell’ubi consistam dell’ordine politico, nonché quella della ratio della respublica christiana» (Ibidem).

Il professor Turco è ad oggi uno dei pochi filosofi, ancora in grado di intus legere la realtà, pensandola per ciò che essa è, alla luce della metafisica dell’essere aristotelico-tomista. Essa postula una attitudine realistica, procedendo dai dati fornitigli dall’esperienza in considerazione della finalità che è propria di ciascun “ente” (ciò che è). 

«Il realismo […] – spiega il filosofo napoletano – coincide con il riconoscimento originario della realtà degli enti, anche di quella dell’ordine giuridico-politico, nella sua consistenza e plenarietà, in quanto è ed è ciò che è. […] Il che richiede l’esercizio della razionalità […] come intelligenza del “che cos’è” donde il “ciò per cui è”, di fronte alla questione ineludibile – e perciò permanentemente attuale – della conoscenza della natura delle cose, la quale coincide con la stessa attitudine del filosofare (ovvero con l’interrogarsi sul loro “perché”)» (Idem, Introduzione, in Della politica come scienza etica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012, p. 6).

Ne emerge un’indagine ad ampio raggio, in cui alla penetrazione filosofica e filologica si accompagna la ricerca storica, attraverso una metodologia affascinante, che si lascia sedurre tanto dalla attenta e sagace “scolpitura” dei termini, quanto dalla indagine in sé considerata, articolata ma chiara. Essa si sviluppa a mo’ di cerchi concentrici che man mano vanno aprendosi al fine di penetrare sino al fondo del tema, per poi richiudersi “magicamente” attraverso la forza della logica tomista, maneggiata magistralmente.

Così come altro è “essere” cattolico, altro è “farsi” cattolico, altro ancora è “dirsi” cattolico, allo stesso modo «altro è la cultura politica cattolica, altro è la cultura politica dei cattolici, altro è una cultura politica di cattolici» (Idem, Il problema politico dei cattolici tra Italia e Germania, cit., p. 9.), rileva il professor Turco. Laddove solo il piano dell’essere investe una riflessione filosoficamente e teologicamente fondata, spuria da sociologismi ed immune dall’ideologia. Questa, infatti, «assume come dirimente il proprio punto di vista e null’altro, escludendo in radice ogni sua valutazione critica». (Idem, Della politica come scienza etica, cit., p. 14).

La traiettoria da cui parte l’accademico procede, dunque, dal definire lo statuto costitutivo della res publica christiana, a partire – come detto – dall’ubi consistam. Poiché risulta impossibile intenderne la peculiarità, dunque l’essenza, «senza considerarne la natura ed il fine».

Procedendo da questo punto di osservazione, il prof. Turco spiega che «il problema della res publica christiana comincia a porsi nei suoi termini moderni – ovvero in rapporto all’alternativa di fondo costituita dal razionalismo e dal naturalismo politico – con l’egemonia (particolarmente in ambito giuspubblicistico ed ecclesiasticistico) del regalismo e del giurisdizionalismo, ed ancor più con la diffusione delle tesi illuministiche e con l’avvento dell’assolutismo illuminato». Ne segue, sul terreno della prassi, la chiara ed esplicita messa in discussione di quella «civiltà, che sarà poi definita, di ancien régime o che sarebbe più proprio qualificare come naturale o cristiana» attraverso una progressiva secolarizzazione del potere, nonostante «la religiosità di facciata di monarchi e ministri» (op. cit., pp. 27-28).

Dinanzi alle armate napoleoniche, esportatrici nella Penisola delle idee rivoluzionarie d’oltralpe, i cattolici italiani si posero sostanzialmente su tre fonti differenti rispetto all’ideale della res publica christiana; capire i quali risulta della massima importanza per le conseguenze che tali alternatività di “posture” avranno nei secoli a venire. «Una prima schiera di autori esprime un giudizio del tutto negativo rispetto alla Rivoluzione» e del trilemma rivoluzionario cui gli è sotteso. Essi, nello stesso momento in cui difendono e promuovono i valori della res publica christiana, non mancano di denunciare duramente il razionalismo, il liberalismo e più tardi il socialismo di cui le società vanno impregnandosi. «Una seconda prospettiva intende in senso conforme alla concezione cattolica la fraternità e l’uguaglianza, ma accoglie la libertà nel suo significato rivoluzionario». Costoro andranno a formare le fila dei cosiddetti “cattolici liberali”, intendendo la res publica christiana un modello ormai antiquato. Infine, «una terza posizione accoglie il trilemma rivoluzionario nel suo significato proprio, e considera la modernità, che la rivoluzione francese inaugura, come una sorta di epifania dello spirito». Da costoro germinerà il “cattolicesimo-democratico”, il quale legge la res publica christiana come un modello “soffocatore” dello spirito evangelico, finalmente sconfitto dalla “storia”. La prospettiva immanentista è lo sfondo proprio su cui essi pensano e operano.

Su questo versante si inserisce e interseca un altro tema di capitale importanza. È la nozione di “Italia”, anzitutto, che necessita di essere chiarita. Essa, infatti, riveste un carattere equivoco sia da un punto di vista storico che semantico, in quanto essa può essere sussunta sia naturalisticamente che attraverso la lente dell’istituzione statuale.

Allo scopo di tratteggiarne esaurientemente il profilo, il prof. Turco ritiene con Elías de Tejada che «andare alla sorgente della storia per riconoscere la validità delle diverse prospettive, costituisce la prima premessa per pervenire all’universalità e riscoprire finalmente la realtà di codesti popoli, la cui personalità viene soffocata in nome del nazionalismo» (F. Elías de Tejada, in Della politica dei cattolici…, cit., pp. 24-25).

«[…] Da una parte vi è l’Italia “reale”– spiega il prof. Turco, richiamando le tesi di diversi protagonisti della stagione risorgimentale –, forgiata nel lungo lavorio dei secoli. È l’Italia dei popoli della Penisola, diversificata da molte patrie ma unita da una comune religione e da una comune civiltà. Dall’altra vi è l’Italia “fittizia”, quella creata dall’ideologia della nazione risorgimentale. Sicché la patria equivale al partito, ovvero è l’esito del progetto (rivoluzionario) che l’ha costituito in Stato» (op. cit., p. 21).

Ad una Italia organica, costituita e sviluppata in comunità plurali ed ordinate, «che vive di una realtà che sta a monte di esso e attorno a cui si ordina» (G. Cantoni, La monarchia tradizionale…, in «Monarchia» anno I, [n. 2], Modena, marzo 1972, pp. 2-4.) fortificata dalla pietas, si contrappone «la patria rivoluzionaria» nata dalla Rivoluzione (francese), la quale «si coagula in una identità artificiale, come tale propriamente fattizia» (op. cit., p. 28). La nozione di “patria”, in quest’ultimo caso, non viene semplicemente riconosciuta, ma “creata” ed eventualmente “ri-creata” dalla minoranza illuminata che si pone alla testa del processo rivoluzionario, rappresentato in Italia dal Risorgimento.

Il rapporto che lega il tema della res publica christiana con quella della chiarificazione della nozione di Italia trova uno snodo di precipua importanza con la fondazione del Regno d’Italia (1861). Con esso viene completata e sancita la sostituzione di ciò che ormai restava della res publica christiana, incarnata dalle molteplici “Italie”, con lo Stato liberale, di impostazione napoleonica. I cui tratti essenziali, in campo legislativo e sociale, non smentirono le premesse teoriche, ma semmai le portarono a pieno compimento. 

«Con la nascita dello Stato unitarioscrive il prof. Turco vengono estese a tutto il nuovo Regno (tra 1861 e 1867) le leggi laicizzatrici, eversive degli ordini religiosi, già imposte in Piemonte. Vengono soppresse tutte le Congregazioni religiose: i beni mobili e immobili, i conventi e le chiese, loro sottratti, vengono incamerati dallo Stato. La vita del nuovo Regno si caratterizza per una aggressiva contrapposizione al cattolicesimo, nelle sue più diverse espressioni» (op. cit., p. 39).

A queste pagine segue una scrupolosa e attenta ricerca della traiettoria seguita dal processo secolarizzatore nella nostra Penisola, mentre dall’altra si descrive il configurarsi lento ma sempre più pervicace di un dato schieramento “cattolico”, termine questo assunto per lo più nominalisticamente, essendo ormai svuotato dalle sue premesse filosofiche e teologiche. Su tale linea si «colloca la nascita del Partito Popolare Italiano (1919), prima, e della Democrazia Cristiana (1942), poi, che ne costituisce insieme l’erede e lo sviluppo». «Si tratta – continua Turco – di un partito programmaticamente “aconfessionale”, la cui concezione dello Stato, veniva dichiarata dal suo fondatore “né cattolica, né anticattolica”» (op. cit., p. 50). Ne discende, quindi, «che su tali presupposti ogni riferimento alla res publica christiana risulta non solo assente ma estraneo» (op. cit., p. 57).

Presupposti, quest’ultimi, per i quali la prassi istituzionale, ridotta alla sola realtà che conta, deve assumersi come unico orizzonte entro quale intendere ed esercitare la politica, in una prospettiva che mette al bando ogni trascendenza di principi. Risulta quindi ineludibile l’affrontare anzitutto i tre «snodi filosofici» che costituiscono la «precondizione sostanziale» al tema inerente la res publica christiana, ossia: «il rapporto con la modernità, la questione della patria (e/o della nazione), il problema dello stato Risorgimentale» (op. cit., p. 58). Tre temi che vanno a costituire il “centro” metaforico e reale della trattazione, che vanno letti e meditati attentamente.

La seconda parte del testo è dedicata ad una estesa analisi della cultura politica dei cattolici in area germanica. Evidentemente le condizioni storico-politiche specifiche ne hanno delineato profili peculiari, sia pur in una prospettiva secolarizzatrice latu sensu analoga a quella italiana. Peculiarità e distinzione poiché «in questo contesto la fine dell’unità della christianitas precede, evidentemente, l’evento rivoluzionario nella sua proiezione napoleonica». Ciò ha comportato lo svilupparsi di un tratto proprio in quanto «con l’affermarsi del Protestantesimo si determina una frattura anche sul piano della concezione della politica. Donde l’istanza di tematizzare compiti e limiti dell’autorità politica e dell’ordine giuridico, oltre che della vita sociale, tali da distinguere una cultura politica propriamente cattolica, rispetto a quella di impostazione luterana e calvinista» (op. cit., p. 70)

Periodi storici come quello in cui in area germanica (interessando oltre che la Prussia anche la Svizzera e il sia pur cattolico Impero Asburgico) si diede inizio alla Kulturkampf (1871-1887), oltre ad avere il pregio di mostrare l’esito fallimentare della Restaurazione, gettano luce sulla “battaglia di civiltà” condotta contro il cattolicesimo, la quale si attuò «tanto mediante la legislazione quanto attraverso misure amministrative […] sulla premessa del primato dello Stato» sulla Chiesa. «Non si trattò di un equivoco storico – osserva Turco – ma di una conseguenza coerente rispetto all’esclusivismo (teorico-pratico) dello Stato-nazione, sorto sulla base del principio di sovranità (della nazione fattasi Stato)» (op. cit., 88).

Paradigmatica è l’esperienza politica del Zentrum (Deutsche Zentrumspartei), su cui l’autore si sofferma. Fondato nel 1870, anch’esso – come si disse in riferimento al Partito Popolare Italiano ed alla succedanea Democrazia Cristiana – non può definirsi un «“un partito cattolico”, giacché fin dall’inizio risulta un partito interconfessionale» in cui alla lealtà verso la dottrina giuspubblicistica cattolica viene anteposta le lealtà verso lo Stato, il quale risulta essere il vero «criterio fondativo» (op. cit., 99). La lealtà alla istituzione statuale, nel frattempo mutatasi in Repubblica di Weimar, sarà ancora la bussola che orienterà il partito negli anni che seguono il primo conflitto mondiale e poi ancora durante il regime nazionalsocialista che ne concreterà la fine. Alla mutata situazione sociale ed economica del dopoguerra, corrisponderà la mutazione dei “cattolici” in politica, con la nascita della CDU-CSU, di impostazione dichiaratamente democratica-cristiana. La disamina del prof. Turco è chiara, specie in riferimento all’ascesa alla guida del partito di Konrad Adenauer, avendo questi «espresso ripetutamente le sue convinzioni ideologicamente liberal-democratiche […], ove cioè la liberaldemocrazia da mezzo è considerata meta, da condizione operativa passa ad essere valore in sé» (op. cit., 118).

L’accademico napoletano, infine, dedica le pagine finali ad analizzare figure chiave colpevolmente dimenticate se non sconosciute (come il cardinale von Faulhalber, il cardinale von Galen, il filosofo Dietrich von Hildenbrandt, il cancelliere austriaco Engelbert Dolfuss e molte altre) dalle quali poter trarre lezioni, saggiare meriti e demeriti, intendere attitudini, carpire premesse metodologiche e sviluppi dottrinali dalle innegabili ricchezze.

Un libro, quello scritto dal professor Turco, di cui non possono fare a meno gli analisti, gli intellettuali, gli storici, i filosofi e tutti coloro i quali, al seguito di Galli della Loggia, sentono il bisogno in politica dell’apporto dei cattolici e si domandano delle ragioni della loro vaporizzazione. Ma soprattutto non può farne a meno il pensiero politico cattolico che non teme di fare i conti con se stesso alla luce del sano lumen rationis, di cui il filosofo Giovanni Turco, con umiltà e sagacia, si fa alfiere alla scuola imperitura di Aristotele e san Tommaso d’Aquino. 

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Diego B. Panetta

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