Giornale di Bordo. Il Coronavirus e la memoria dell’Asiatica del 1957

L’articolo di Paolo Monelli

Due care amiche, molto diverse caratterialmente, ma accomunate dalla passione per gli scrittori francesi “maudits” e da un piglio un po’ iconoclasta nei confronti dei luoghi comuni, mi hanno manifestato quasi contemporaneamente, senza conoscersi, un’analoga impazienza nei confronti dell’attuale tendenza a enfatizzare i pericoli derivanti dal Coronavirus. 

Tutte e due fanno il paragone con l’atteggiamento che l’Italia tenne nel 1957 nei confronti dell’Asiatica. Questa pandemia, venuta anch’essa dalla Cina, coinvolse a seconda delle stime fra il 10 e il 30 per cento della popolazione mondiale, mietendo circa due milioni di vittime; in Italia le vittime furono ben trentamila. 

Una di queste due amiche si è addirittura “fatta” l’Asiatica, a diciannove anni; l’altra ne ha un ricordo più vago, come me, che, poco più che infante, sentivo mia nonna evocarne con terrore il nome (e ne aveva ben donde: aveva perso il marito, maresciallo dell’Esercito, nella grande epidemia di Spagnola e aveva dovuto prendere il diploma di “maestra giardiniera” per portare entrambi i figli alla laurea integrando una modesta pensione di reversibilità con lo stipendio d’insegnante).

Entrambe osservano come l’atteggiamento dei mezzi di comunicazione sociale e delle autorità fosse in quell’occasione radicalmente diverso. Nonostante l’estensione del contagio, favorita anche dagli spostamenti dei militari di leva per licenze, esercitazioni o parate, e nonostante che ne fosse stata colpita anche la moglie dell’allora Presidente della Repubblica Gronchi, i giornali tendevano a minimizzare la situazione; la Tv, per altro strettamente controllata dal governo, era appena agli esordi. La preoccupazione dominante era di non creare allarme. Persino un grande giornalista e scrittore come Paolo Monelli, autore di volumi indimenticabili come Le scarpe al sole, Con me e con gli alpini od Optimus potor, pubblicò sulla “Stampa”  per tranquillizzare l’opinione pubblica un articolo il cui titolo era tutto un programma: “Il terrore per una gentile influenza è dovuto solo al nome: asiatica”.  

Nonostante il rischio del contagio uffici, fabbriche, cantieri, banche, negozi, bar, ristoranti, parrucchieri rimasero aperti; solo l’inizio dell’anno scolastico conobbe uno slittamento, in aree particolarmente colpite dal virus. La vita continuò a fare il suo corso, in una nazione che proprio allora stava superando il sottile crinale fra le asperità della Ricostruzione e l’euforia del Miracolo economico. E l’Italia resse  alla prova, sia pure con un tragico bilancio di morti.

Le constatazioni di entrambe sono condivisibili; un po’ meno le deduzioni. Certo, se l’Italia degli anni Cinquanta ebbe dinanzi all’Asiatica un atteggiamento un po’ da Conte Zio e da Padre Provinciale, volto a “sopire” e a “quietare” ogni pur giustificato allarme, oggi si assiste a un fenomeno opposto, anche per effetto dei mezzi di comunicazione sociale, che non fanno economia di superlativi e trasformano Tg e radiogiornali in altrettanti bollettini medici. Ma il fatto che al giorno d’oggi possiamo permetterci una maggior sollecitudine nei confronti della vita umana non è di per sé negativo. In un’Italia che stava uscendo dalle miserie del dopoguerra l’idea di fermare i cantieri e di chiudere le banche per tener lontano il contagio sarebbe stata inconcepibile. Oltre tutto, ad appena dodici anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, era ancora fresco il ricordo delle ecatombi belliche e si dava minore importanza alla vita umana. La tbc faceva ancora molte vittime e la polio imperversava: la mia classe anagrafica è stata la prima a vedersi versate nel 1963 su una zolletta di zucchero le gocce del vaccino Sabin. La mortalità infantile era ancora elevata e nei confronti della morte si aveva un atteggiamento di rassegnazione che sconfinava nel fatalismo. A un nipote che piangeva la morte della nonna novantenne poteva capitare di sentirsi dire: “La balia non l’ha strozzata.” In più senza televisione, senza computer, senza tablet, senza telelavoro anzi in molte case senza telefono o con il “duplex”, senza surgelati, senza microonde, lo slogan “io resto a casa” sarebbe parso assurdo.

Un’ultima constatazione: nel 1957 era diffusa in tutto il mondo un’enorme fiducia nei confronti della scienza medica, che aveva fatto passi da gigante nella cura di molte patologie. Piuttosto che contare i morti che l’influenza provocava, si pensava alle vite umane che i sulfamidici e gli antibiotici stavano salvando. Oggi è diffuso un atteggiamento molto più scettico nei confronti del progresso scientifico, anzi non manca chi scorge nel Coronavirus una sorta di vendetta della natura nei confronti della nostra hybris, dimenticando che le pandemie erano frequenti e ben più letali prima della rivoluzione industriale.

Per rispondere alle considerazioni delle mie due corrispondenti, penso che solo il tempo ci dirà quale delle due Italie abbia reagito meglio al virus. Nel frattempo, consoliamoci degli odierni disagi pensando alla fortuna di vivere in un mondo che può permettersi il lusso di subordinare lo sviluppo alla sicurezza. Fino a quando?

@barbadilloit

Enrico Nistri

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