L’intervista (di A. Di Mauro). Rampelli: “Superare ultraliberalismo globale”

Proprio nel momento in cui il “mainstream” tende a spegnere i riflettori sui protagonisti dell’isterico teatrino politico per dare voce esclusivamente ai virologi e agli esperti, noi di “Candido” crediamo sia giusto mettere questo nostro spazio di confronto culturale al servizio della buona politica. Quella capace di affrancarsi dalle scaramucce tra maggioranza e opposizione – solitamente tese al recupero di qualche punto in percentuale nei sondaggi – per concentrarsi piuttosto sul fenomeno generale che fa da sfondo ad una delle stagioni più tragiche vissute dal nostro Paese dal Secondo Dopoguerra in poi.
Lo facciamo con il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli – esponente di spicco di Fratelli d’Italia – che nel pieno dell’emergenza in Lombardia ha avuto il merito di pubblicare un post sui social dal titolo chiaro e fortissimo: “Globalizzazione fottiti”.

Pensa anche lei, onorevole Rampelli, che questa sciagura non sia affatto un semplice incidente, ma uno degli aspetti strutturali di questo mondo globalizzato?

Assolutamente sì. E mi fa piacere che questa nostra convinzione sia ormai supportata da ciò che dicono scienziati e virologi autorevoli. Del resto, se circolano in maniera libera su tutto il pianeta uomini e merci, è impensabile che non vi sia altrettanta massiccia circolazione di virus e batteri, anche sconosciuti. è del tutto evidente che d’ora in avanti, ammesso e non concesso che il modello globalizzato sia il nostro destino, il dato sanitario dovrà essere il baricentro intorno al quale costruire la società, per garantire la tutela della vita dei cittadini, delle famiglie e dei lavoratori.

Il mese scorso lo psichiatra Claudio Risé ci ha ricordato che se l’uomo viene sradicato dallo spirito della comunione con la sua terra è destinato a perdere forze e ad ammalarsi. L’individuo, in sostanza, è per sua natura locale e non globale. Occorre recuperare al più presto lo junghiano “genius loci” e quel senso del “confine” negato dai dogmi del globalismo, ma indispensabile per lo sviluppo della personalità umana?

La Destra politica italiana considera da sempre non negoziabili due elementi precisi: il primo è il differenzialismo, cioè proprio il rispetto di quel “genius loci” cui voi fate riferimento e che si concretizza nella promozione delle differenze tra le culture, le tradizioni e i popoli di tutto il pianeta. Esattamente la direzione opposta a quella verso la quale marcia trionfalmente la globalizzazione, con la tristissima prospettiva di avere – tra qualche secolo – metropoli perfettamente uguali, così come uguali rischieranno di diventare le sensibilità, le opere letterarie, artistiche, musicali, architettoniche.
Per ragioni di mercato e di consumo dovremmo dunque rassegnarci a un mondo caratterizzato dagli stessi prodotti e dai medesimi desideri. Il secondo pilastro sul quale poggia il patrimonio culturale della Destra italiana è una sorta di postulato del primo e riguarda il concetto di identità. Si possono senz’altro mettere a sistema le tecnologie, perché sarebbe assurdo rifiutare il progresso della scienza. Ma lo sviluppo della tecnica non deve mettere mai in discussione il valore dell’identità dei popoli – e di conseguenza degli individui – che devono conservare sempre la propria centralità.

Sappiamo che l’utopia del cosmopolitismo poggia le proprie basi proprio sul trinomio “finanza-tecnologia-ipercomunicazione”, da lei evocato. Che strumenti ha la politica per recuperare il proprio ruolo di preminenza sul comparto tecnico-finanziario che in questa fase storica si sta sempre più autonomizzando?

Il passo fondamentale è sicuramente quello di riconnettere la politica a una visione del mondo – con parametri culturali chiari e precisi – ed affrancarla così da quell’opportunistica “ricerca delle occasioni” che purtroppo oggi, troppo spesso, la caratterizza. Noi di Fratelli d’Italia raccogliamo l’eredità di una politica da sempre attenta a una concezione spirituale del mondo e della vita che vuole mettersi al servizio dell’uomo e non rassegnarsi a rincorrere i modelli dell’economia finanziaria e del consumismo. Si tratta di una lunga battaglia di prospettiva, molto faticosa, che noi intendiamo assolutamente intestarci pur nella consapevolezza delle enormi difficoltà. Il primo aspetto che andrebbe modificato, infatti, è proprio il rapporto con la materia e con quel dio danaro che orienta ormai massimamente le scelte di tutto il mondo. Comprese quelle di un Paese come la Cina che, nonostante sia governata da una dittatura comunista, ha aderito al libero mercato generando un corto circuito mostruoso. Perché è ovvio che se tu fondi la tua produzione sui campi di lavoro forzati eppoi esporti quei prodotti – realizzati praticamente a costo zero da delinquenti comuni e dissidenti politici – in un mondo dove vige una civile legislazione del lavoro, stai facendo un’enorme concorrenza sleale. Sembrerà assurdo, ma in ossequio alle logiche del liberismo globalizzato ci ritroviamo a dover far fronte anche a una tale iperbole.

Questo tragico evento del coronavirus può rappresentare un’occasione per mettere in discussione questo sistema che, nel mezzo dell’emergenza, ha mostrato ancora una volta tutte le proprie criticità?

Mi auguro di sì, anche se non sarei così ottimista. Sicuramente la crisi sanitaria, così come quella economica che ne consegue, hanno fornito un’altra dimostrazione plastica dell’assoluta necessità di riprendere il controllo diretto – a livello nazionale – dei cosiddetti asset strategici. Priorità che noi sosteniamo da sempre.
Il fatto che nel nostro Paese, nel pieno di un’emergenza sanitaria, non esistano mascherine perché devono essere prodotte a quattro soldi (nel nome delle logiche perverse già citate) al di fuori dei confini nazionali e persino continentali, è assolutamente inaccettabile. Noi dobbiamo essere autosufficienti e tutte le produzioni strategiche devono restare a casa nostra. Non è ammissibile delegare la realizzazione dei respiratori artificiali, o di altri presidi medici salvavita, alla Germania piuttosto che agli Stati Uniti. Soprattutto alla luce della reazione algida che questi Paesi – ma più in generale l’Europa e tutto il blocco Occidentale – hanno mostrato nei confronti dei bisogni e delle esigenze dell’Italia. L’emergenza sanitaria, insomma, ha riconfermato l’urgenza di autonomizzarci. Si tratta dell’unico aspetto positivo di una catastrofe senza precedenti.

Per la prima volta dopo Fiuggi c’è chi da Destra, finalmente, torna a scagliarsi con estrema chiarezza contro le logiche neo-liberiste del globalismo.
Non c’è il rischio di andare a uno scontro frontale con alcune sensibilità presenti nell’orizzonte più vasto del Centrodestra? Pensiamo, per essere più chiari, ad alcuni ambienti vicini a Forza Italia…

Si dice sempre che viviamo in un’era post-ideologica. Trovo curioso, dunque, che dopo il superamento del fascismo e del comunismo, l’unica ideologia che non possa essere messa in discussione sia proprio questo ultra-liberismo che, al contrario, è diventato una sorta di dogma all’ombra del quale accadono le peggiori nefandezze: penso allo sfruttamento del continente africano e dell’ambiente. Penso alla riduzione degli individui a massa subumana di consumatori e a tutto il resto che ci siamo già detti. Il tema, dunque, è superare tutte le ideologie prendendo da ognuna di esse ciò che di meglio e di buono hanno da offrire. Del resto, lo stesso libero mercato ha molti aspetti positivi da conservare e valorizzare. Purché, però, tale modello non subisca l’interpretazione distorta adottata in Europa e in particolare nel nostro Paese, dove – nel nome di un iper-liberismo degenerato – sono state sistematicamente svendute tutte le grandi aziende di Stato.
Il libero mercato non implica simili ricette demenziali. Non va inteso come assenza di regole e inibizione di qualsiasi intervento statuale nel terreno dell’economia. Non può, in sostanza, giustificare operazioni come quella di autostrade – tanto per fare un esempio preciso – in cui i costi delle opere di costruzione dell’intera rete gravano sullo Stato (cioè sulla collettività), mentre i ricavi finiscono tutti nelle casse di soggetti privati, in forza delle concessioni di gestione.
Ebbene, io sono convinto che su questi principi di buon senso non sia difficile costruire un dialogo e riconoscere persino una corrispondenza di vedute con gli alleati forzisti, tra i quali – va detto – molti possiedono una spiccata e riconosciuta sensibilità al valore della solidarietà, tutt’altro che estraneo alla cultura di un liberalismo illuminato e sostenibile.

*Da Candido di aprile 2020

Alessio Di Mauro*

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