Libri. “L’imagnifico”: La vita di D’Annunzio firmata da Serra tra Fiume, amori e Mussolini

Gabriele D'Annunzio

“L’imaginifico Vita di Gabriere d’Annunzio” di Maurizio Serra

A differenza della Francia, in cui esiste una gloriosa tradizione di ambasciatori con la vocazione della letteratura, da Giraudoux a Claudel, da Paul Morand al premio Nobel Aléxis Léger, meglio noto con lo pseudonimo di Saint-John Perse, in Italia i diplomatici scrittori non abbondano, mentre sono anche troppo numerosi gli scrittori diplomatici, preoccupati nella loro opera di non turbare gli idola fori del proprio tempo. In compenso da noi sulla quantità fa aggio la qualità, una qualità per altro apprezzata più all’estero, come spesso succede, che in patria. Lo conferma la notizia della cooptazione fra gli Immortali dell’Académie Française di Maurizio Serra, rappresentante permanente d’Italia presso l’Onu a Ginevra con alle spalle una lunga carriera di saggista. Per sedere sul seggio che fu di Simone Veil ha scritto e pubblicato in francese con l’editore Grasset i suoi ultimi due libri, le biografie di Malaparte e di d’Annunzio, che solo successivamente sono state tradotte in italiano. Non è il primo straniero a entrare fra gli “Immortels”, basti pensare al caso del romeno Jonesco, ma nel suo caso non c’è stato bisogno di una naturalizzazione. 

Di cultura in buona parte francofona, da quando all’esame di maturità portò una “tesina” su Drieu La Rochelle, Serra padroneggia benissimo la lingua di Molière, non solo per dovere professionale. E i francesi, si sa, apprezzano molto gli stranieri che scrivono nel loro idioma, specie dopo che questo purtroppo ha perso a beneficio dell’inglese il suo ruolo egemone nella cultura e, a partire dalla conferenza di pace di Parigi, nella diplomazia. Commentando la scelta di pubblicare in Francia la sua biografia di D’Annunzio, un sottile recensore ha osservato che si trattava di una scelta un po’… dannunziana. Ma, a differenza dell’Imaginifico, che, salvo rare eccezioni, si faceva volgere in francese le sue opere, magari questionando con i traduttori, Serra si è fatto tradurre in italiano l’originale francese, tra l’altro da un insigne studioso che è anche lontano parente di una delle figure che ebbero un ruolo non secondario negli ultimi anni del poeta, Luisa Baccara. Il risultato, come l’ha definito qualcuno, è un libro “sontuoso”, non tanto per il suo spessore fisico, quanto per l’ampiezza di respiro e l’eleganza del fraseggio, che fa pensare un po’ al miglior Chateaubriand (e infatti la biografia ha vinto nel 2018 il premio intitolato al grande bretone). Un libro che trova il suo spazio, senza pedanterie accademiche né strizzate d’occhio alla volgarità, nella pur sterminata bibliografia su “D’Annunzio le Magnifique” (questo il titolo dell’originale francese, in italiano mutato nel più scontato ma più sobrio “L’Imaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio”, Neri Pozza Editore).

Maurizio Serra

Misurarsi con una vita del Vate è un’impresa che comporta dei pericoli anche per scrittori navigati: dal rischio professionale del biografo d’innamorarsi del biografato come la segretaria s’innamora del capufficio alla tentazione dell’aneddotica pettegola, del “ragionieristico computo degli accoppiamenti e dei debiti” che il giovane Stenio Solinas nel 1979 rinfacciò sulla rivista “Elementi” al “D’Annunzio visto dal buco della serratura” di Piero Chiara,  in una papiniana stroncatura. Nel caso di Serra, si ha invece l’impressione che l’autore si misuri da pari a pari con D’Annunzio, non perché pretenda di emularlo, ma in quanto cerca di esprimere su di lui un giudizio à part entière, non solo estetico o politico, ma etico, non angustamente moralistico o, peggio ancora, contabile. Sotto un certo profilo la sua biografia ricorda, per certi aspetti in meglio, il ritratto di Chateaubriand che Raymond Aron tracciò in Il mio ultimo pensiero sarà per voi. Serra sintetizza e commenta opere, registra amanti, accompagna il poeta nelle sue peregrinazioni (meno numerose di quanto si pensi: D’Annunzio non aveva lo spirito del viaggiatore) sino al ritiro del Vittoriale; lo segue nelle sue gesta militari e nelle sue scelte politiche, ma tenendosi lontano dall’apologia o dalla derisione, se si eccettua l’ironia sulla mobilia di dubbia antichità e di ancor più dubbio gusto che negli anni della Capponcina gli rifilavano i callidi brocantiers fiorentini. A prevalere in lui è una sim-patia che nelle pagine finali, dedicate agli ultimi anni del poeta, si avvicina, etimologicamente, alla com-passione.

È forse proprio questa pietas a far sì che, senza togliere nulla agli altri capitoli dell’opera, le ultime pagine siano le più coinvolgenti. Possono ingannare i titoli, beffardi sino alla crudeltà (“L’agonizzante”, o “Il crepuscolo di un fauno”) e certe notazioni feroci (la “pancia da commendatore declinante” che straripa dagli abiti stretti, la golosità senile del vecchio gaudente sdentato che in gioventù aveva preso a morsi la vita). Ma dietro questa apparente spietatezza pare a tratti di scorgere l’affetto di un figlio che soffre per il declino, fisico e non solo, del genitore. Mentre la maggior parte dei biografi tende a scivolare sui diciassette lunghi anni che seguono il termine dell’impresa fiumana, Serra non ha paura a seguire l’Imaginifico anche negli ultimi anni, fra “donne attempate rimesse a nuovo”, odalische venali, irriverenze di una nuova generazione di scrittori che, come Brancati e Longanesi, consideravano il dannunzianesimo una malattia da cui guarire. Persino nel kitsch del Vittoriale, che senza dubbio vi fu (ma nemmeno la Capponcina era un monumento al buon gusto), Serra scorge elementi di modernità: nel letto a forma di bara in cui dormiva D’Annunzio coglie un che di surrealista, si potrebbe dire alla Dalì, così come apprezza anche nelle ultime opere i lampi di una “intelligenza prensile, che sa sempre incastrare le emozioni al posto giusto.”

Di solito, quando si legge una nuova biografia di D’Annunzio, ci si sofferma subito su alcuni aspetti salienti, tradizionalmente oggetto di confronto fra gli studiosi. Uno, scontato, riguarda il suo rapporto con le donne e in particolare il tormentato rapporto con la Duse. Serra, pur riconoscendo la sostanziale “anaffettività” del poeta, che “amò molto, ma male”, esprime un giudizio relativamente indulgente nei confronti dell’autore del “Fuoco” e riconosce che non dispiacque alla stessa Duse essere rappresentata, sia pure impietosamente, nel personaggio della Foscarina. Un altro concerne le motivazioni della scelta interventista, ricondotta da molti biografi prevenuti a presunti finanziamenti francesi, e l’effettiva serietà del suo impegno militare. L’autore smentisce i primi (così come nega le presunte malversazioni nell’acquisto del Vittoriale); quanto alle gesta del poeta soldato concorda con un biografo insospettabile come il marxista Paolo Alatri, che già molti anni fa considerava “del tutto fuori luogo” le “considerazioni beffarde” a proposito dalla partecipazione di D’Annunzio al conflitto. Serra anzi osserva come il poeta soldato non sia stato molto amato dal Comando supremo, parco con lui di decorazioni, anche se ovviamente preoccupato per la sua incolumità, anche per le ripercussioni che avrebbe avuto una sua cattura. Oltre tutto, la scelta interventista costò a D’Annunzio un ovvio ostracismo nel mondo germanico e mitteleuropeo, dove poteva vantare grandi estimatori: basti pensare alle invettive di un Hofmannsthal, che lo definì “un Pulcinella rivestito da Tirteo”, o del Thomas Mann delle Considerazioni di un impolitico.

Più articolato il giudizio sull’impresa fiumana, che segnò il culmine della popolarità di D’Annunzio, ma anche l’inizio del suo declino. Serra ammira il coraggio, la determinazione, lo stoicismo (partì da Venezia con la febbre a 39) di questo “principe dell’avventura”, ma esprime le sue giustificate riserve sulle sue capacità di capo di governo. Diviso fra “fiumani” e quelli che, alla francese, venivano chiamati “fiumisti” (in francese fumiste è una persona poco seria), fra filofascisti alla Host Venturi, per altro duramente colpito in tarda età da una sorte beffarda e crudele, e simpatizzanti della rivoluzione d’ottobre, più che un principe del Rinascimento il Comandante appare a Serra quasi un precursore di Perón, per altro con troppe Evite (o peggio Isabelite) al seguito.  Severo, forse troppo, è anche il giudizio sul “Natale di sangue”. A giudizio di Serra il Comandante avrebbe dovuto trattare, evitando di mettere a rischio la vita dei suoi uomini, e anche la sua, ma questo avrebbe offuscato il suo mito. In questo caso, forse, il diplomatico prevale sul biografo. Difficile, invece, dar torto al giudizio sul “nebuloso lirismo” della Carta del Carnaro, “miscela corrosiva di utopie e folgorazioni”. Eppure quel nebuloso lirismo sedusse perfino un Gramsci, che si recò al Vittoriale in pellegrinaggio e fu snobbato dal D’Annunzio, forse per la sua gibbosità che “gli ricordava gli esseri deformi delle sue novelle abruzzesi”, e lo stesso Bertold Brecht, da cui era giudicato un “ciarlatano che ha lasciato poesie che difficilmente spariranno”.

Strettamente legato all’impresa fiumana è il tema dei rapporti fra D’Annunzio e Mussolini, che ha visto sino ad oggi contrapporsi quanti, per esaltare il fascismo o per demonizzare il poeta, hanno insistito sulla sua adesione al regime, che senz’altro non fu mai senza riserve, e quanti, per salvare D’Annunzio, negano che sia stato fascista. La questione, a giudizio di chi scrive, è mal posta: D’Annunzio non aderì mai al fascismo per il semplice motivo che fu lui a inventare il fascismo. Un fascismo senz’altro diverso da quello che poi s’inverò, come del resto diverso da quello che s’inverò fu il fascismo di Marinetti, di Gentile, persino di molti gerarchi e persino del Mussolini sansepolcrista. Sotto questo profilo, il giudizio più lucido è stato quello di un personaggio minore, ma che godette nel Ventennio e oltre di una non immeritata notorietà, il poeta e grande invalido Carlo Delcroix, che gli rimase per altro sempre fedele. Delcroix, nel dopoguerra deputato monarchico e futuro suocero di Giano Accame, osservò, alludendo anche alla sua parabola personale: “i miti da lui creati conquistarono l’Italia senza di lui”. Certo, molto lascia pensare che D’Annunzio avrebbe manifestato il suo dissenso nei confronti dell’Asse e delle leggi razziali. La sua avversione, estetica prima ancora che etico-politica, per “l’imbianchino” con i baffetti alla Charlot è ben nota. Più ondivaga fu semmai la sua posizione nei confronti degli ebrei. Uscite antiebraiche non mancano nella sua sterminata produzione (ma non mancano nemmeno nel giovane Gramsci critico teatrale dell’ “Avanti!”).  A quelle citate da Serra si può aggiungere la sortita, contenuta nel “Libro ascetico della Giovane Italia”, sul pericolo che l’Europa si trasformi in una “sporca banca giudea al servizio della spietata plutocrazia transoceanica”. Ma non è da escludere che su questi pregiudizi snobistici avrebbe finito per prevalere il quasi altrettanto snobistico disprezzo per le “pennellesse” con cui Hitler imbrattava i muri da giovane e il piacere di contraddire Mussolini, che invece della marcia su Fiume febbricitante aveva fatto, in un comodo wagon lit, la marcia su Roma. 

Recensendo su “Le Monde” l’edizione francese di questa biografia, l’8 febbraio 2018, Nicolas Weill ha parlato di un “procès en appel” per D’Annunzio, un giudizio d’appello, dopo una lunga stagione di antidannunzianesimo. È un giudizio davvero in grado di ribaltare la precedente condanna? Chi scrive è convinto della necessità di un giudizio articolato e scevro, ormai, da pregiudizi. D’Annunzio ebbe senz’altro il difetto di scrivere troppo, parte per intima irrefrenabile vocazione, parte per esigenze economiche (era un’epoca in cui carmina dabant panem), aiutandosi spesso con “prestiti” da altri autori. C’è, nella sua produzione teatrale e poetica, molta “fuffa”, ma quando si legge a una scolaresca “La pioggia nel pineto” il brusio all’improvviso si tace, i cellulari si spengono, per il richiamo invincibile della musicalità del verso. Delle “tre corone” della nuova Italia, di cui parlavano le vecchie professoresse di Lettere, il più grande forse non è lui, né il Carducci, ma il mite e sfortunato Pascoli. Ma nessuno come lui seppe interpretare lo spirito di un’epoca, in letteratura come in politica. Fatale che, quando quest’epoca tramontò, declinasse anche la sua fortuna e il suo nome più che nella biblioteca degli esteti finisse nella pubblicità economica delle estetiste dispensatrici di “pratiche dannunziane”. Ma siamo proprio sicuri che la colpa di questa inattualità sia di questo grande letterato che metteva troppe maiuscole, o non sia invece dell’Italia troppo minuscola di questi anni, una nazione – come scrive Serra – “che sembra aver rinunciato a qualsiasi grande ideale per sostituirvi il culto del ‘particolare’”? Gli dei se ne vanno, disse qualcuno, D’Annunzio resta. Poi fu vero il contrario. Ma – e in questo risiede uno dei significati più profondi dell’ultimo libro dell’“immortale” Serra – ancora meno rimane di questa povera Italia che da troppi anni s’illude di non avere più bisogno di eroi.

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Enrico Nistri

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