Cinema (di M. Cabona). Parasite, la guerra tra poveri raccontata da Bong Joon-ho

La locandina di Parasite

Versione apparentemente impolitica della lotta di classe, la piccola delinquenza affascina e ispira il cinema italiano tanto nel dopoguerra (Ladri di biciclette, Guardie e ladri, Il bidone…), quanto negli anni ’70 (Brutti, sporchi e cattivi).  Ora ne è affascinato il cinema dell’estremo oriente e le giurie degli ultimi due Festival di Cannes hanno premiato con la palma d’oro nel 2018 il giapponese Affari di famiglia di Hirokazu Kore-eda e nel 2019 il sudcoreano Parasite di Bong Joon-ho. Entrambi raccontano famiglie che vivono di espedienti con peripezie talora grottesche in Paesi che già nello scorso secolo sono diventati potenze economiche.

A voler guardare indietro, gli archetipi non italiani di Parasite sono Ferro 3 di Kim Ki-duk e il recente Burning di Lee Chang-dong. Nel finale di Parasite echeggia anche Funny Game di Michael Haneke. Sono tutti film da festival e tutti opera di registi più inclini di Bong Joon-on a schierarsi. Insensibile alla questione della colpa, Bon Joon-ho considera, non compiange i suoi miserabili. La sua cinepresa è l’occhio di un entomologo. Constata che chi è nato povero forse lo merita, ma anche che chi è nato ricco deve ringraziare il caso. 

Ad affrontarsi in Parasite non sono classi lontane tra loro, ma classi contigue: i poveri inclini all’accattonaggio contro i poveri inclini al lavoro. Li separa l’incapacità di sacrificio: quando si è solo parassiti, sebbene intelligenti e pianificatori, non si fa molta strada.

Più che le parole dei dialoghi, sono gli arredamenti a connotare gli schieramenti familiari opposti. Pochi locali, sovraffollati di persone e cose, sono lo sfondo di chi vede il mondo da una finestrella di scantinato, dove l’aria non dissipa la cappa di muffa. Molti locali, poco e bene arredati, sono lo sfondo di chi vede il mondo dall’alto, con la mediazione di un giardino all’inglese per le feste e di una cantina da ristorante di lusso, confinante – e qui aleggia l’ombra della catastrofe – col rifugio antinucleare. E’ quest’ultimo ad aver un ruolo inaspettato, campo di battaglia fra chi è vissuto nel semi-interrato e chi è sceso ancor più profondamente nella terra per avere, almeno, un’esistenza da talpa.

La regia avrebbe potuto rinunciare a una ventina di minuti, dove si vede e si rivede la stessa situazione. Ma il pubblico, specie quello giovanile, di un film apprezza – lo si è visto dagli incassi notevoli in giro per il mondo – la quantità rispetto alla qualità. 

Opera felicemente corale, Parasite offre agli attori nei ruoli dei poveri – superba l’interpretazione del padre offerta d Song Kang-ho – le battute più cattive, che sono le migliori, e le situazioni più esasperate, che invece raramente lo sono. Se si ha indulgenza per una comicità da circo (i poveri inciampano spesso e volentieri), se non si immagina il finale fin dalla prima ora, si capisce perché sia un film da palma d’oro.     

(Il Messaggero, giovedì 7 novembre 2019)

*Parasite***1/2

Corea del Sud, drammatico, 132’

Regia di Bong Joon-ho, Song Kang-ho, Lee Sun-kyun , Cho Yeo-jeong, Choi Woo-Shik, Hyae Jin-Chang, Park So-dam

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Maurizio Cabona

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