Libri. “Tenue m’apparve allora la materia” di Nicola Accettura: quando la poesia ha la “chimica giusta”

Se prescindiamo per un momento da quella peculiarità della scienza che è la sua utilità pratica, dal fatto cioè che le conoscenze scientifiche sono utilizzabili per i bisogni dell’uomo grazie alle tecnologie, ci troviamo subito immersi in un mondo fantastico: atomi, elettroni, leggi fisiche, forze e campi, reazioni chimiche. E non a caso definiamo questo mondo “fantastico”. Infatti, è un mondo reale? Nient’affatto. Atomi, elettroni, leggi fisiche, reazioni chimiche sono frutto di immaginazione, sono ipotesi, sono verità problematiche, che si fondano su ragionamenti, che devono essere provati e sono di continuo e sempre sottoposti a revisioni. In altre parole, la conoscenza scientifica è un’interpretazione dei fatti, è una conoscenza simbolica di una parte del reale, come ben sanno gli stessi scienziati.  

Tutto ciò potrà suonare strano a coloro che vivono in un’età che ha trasformato le verità problematiche della scienza in credenze, la scienza in fede. Ma la verità è che la scienza è in primo luogo opera di immaginazione e questa caratteristica, come osservava il filosofo Ortega y Gasset, fa della scienza «una sorella della poesia»: come per i poeti esistono le chimere, così gli atomi «sono le chimere della fisica». E in Idee e credenze, un piccolo saggio del 1940, il filosofo spagnolo ribadiva: «la scienza è molto più vicina alla poesia che alla realtà (…). Senza dubbio, a confronto con un racconto, la scienza sembra la realtà stessa. Ma allorché la confrontiamo con la realtà autentica, ci accorgiamo di quanto la scienza assomigli al racconto, alla fantasia, alla costruzione mentale, all’edificio mentale. (…) il triangolo e Amleto hanno lo stesso pedigree 

Queste osservazioni preliminari ci paiono necessarie per meglio inquadrare un libro di poesie, Tenue m’apparve allora la materia (Tabula fati, pp.132, € 12), da poco in libreria, di Nicola Accettura (in una nota a margine di una delle sue poesie scrive lapidariamente che «gli atomi non sperano e non pensano»). L’autore, laureato in chimica industriale e già docente di materie scientifiche, si cimenta infatti con un genere di poesia che potremmo definire “scientifica”. I nostri ricordi di scuola ci rimandano, a questo proposito, ad un poeta dell’Ottocento, Giacomo Zanella, che fu uno dei pochissimi poeti “scientifici” italiani e fu, paradossalmente, un sacerdote. Nella sua più famosa poesia, ad esempio, riportata in tutte le antologie, Sopra una conchiglia fossile, l’argomento è la teoria dell’evoluzione della terra e dei suoi organismi, interpretata alla luce delle sue idee religiose. E in una dedica all’amico Fedele Lampertico il poeta vicentino scriveva: «I soggetti che più volentieri ho trattato sono quelli di argomento scientifico, ma non è già l’oggetto della scienza che mi paresse capace di poesia, bensì i sentimenti che dalle scoperte della scienza nascono in noi.»  

Sulla stessa linea si pone Accettura che certamente si propone di fare una poesia scientifica nel senso sopra precisato dallo Zanella, per il quale l’argomento scientifico diventa occasione per interrogarsi sulla propria esistenza e sui sentimenti che le scoperte scientifiche suscitano. Ma il nostro autore non si ferma qui, fa anche il tentativo ambizioso di interpretare poeticamente le scienze e di mostrarci che i concetti scientifici contengono anche tesori di poesia. Emblematica è la prima bella poesia con cui si apre la raccolta: «Ponti a idrogeno le parole / nostre, / incredibili gabbie /costruiscono e sfanno / e vi catturano vuoti / e silenzi.» Nella chiosa a corredo della poesia l’autore ci spiega cosa sono i “ponti a idrogeno” e le “gabbie”. Ed è questa una caratteristica di questa raccolta, in cui tutte le poesie, salvo le ultime tre, sono seguite da chiose esplicative dei termini scientifici usati, a volte, non nascondiamocelo, troppo tecnici o astrusi. Ma, anche ignorando le citate nozioni scientifiche, la poesia riesce egualmente a comunicarci la magica funzione delle parole nel costruire e nel disfare. Ne citiamo un’altra che ci sembra particolarmente felice: «Quanti di luce / nel tuo sguardo fingo / e dai tuoi occhi / i miei percuotono. / Quanti di sogni / marcano le strade / nascoste / con un grido / della mano.» Luce, sogni, amore: che relazione c’è? Ed ancora: «Ricordare i perché delle notti invernali. / Riportare arance mature da un viaggio in Cina. / Scuotere di vento solo le cime degli alberi. / Mandare gente fidata a parlare al posto d’altri. // Parlare del tempo che smette di fuggire. // In silenzio fu distillata la trama del cielo / e fu recata nelle valli / come sentenza d’esilio.» I ricordi che la mente ci restituisce sono mai puri (si “distillano”)? E non ci prende allora una sensazione d’esilio nell’atto del  ricordare? 

Al pari di Pascal, non a caso matematico e fisico oltre che filosofo, che sosteneva che l’ultimo passo della ragione è riconoscere il mistero oltre sé stessa, Accettura sente il mistero che circonda la nostra vita: «In quale turbine di molecole insaziate / si sarebbe potuto intrufolare / il mistero oscuro della vita?  / (…) / Non occorrono esatte parole sotto cui stendersi / ad aspettare il trascorrere lento della luna. / Non occorrono sagomate vele per raccogliere / i venti che avvolgono i mari. // Non sempre, in quest’aria fatta di aria / e aggredita da questo triste inverno, / necessita acquetare le parti di me / che rincorrono le nebbie.» 

La poesia autentica, che a ben vedere è una «struggente inchiesta sulla verità dell’essere» (Vittorio Bodini), non può che scivolare, inevitabilmente, passo dopo passo, nella filosofia, non può non porsi domande sul vivere, e non importa poi che sia la visione scettica a prevalere e a dare una risposta più o meno appagante o quella religiosa. Invano il poeta si chiede: «Fummo veramente, / o solo ci colse un gioco / sfuggito per caso alle regole?» Anche l’amore non fa eccezione: «Di che sei fatto, amore?  / Necessità di una  causa per un effetto / mi riconduce alla materia tua, che è fatta di poco, forse di niente.»

Prevale nel nostro autore una sorta di rassegnazione, il dubbio che il mondo con tutti gli esseri che lo compongono sia, alla maniera del Vedanta di Shankara, solo il sogno di un dio: «Silenziosamente lacera lo spazio la luce, / torna a dirmi. “ti cerco”, senza rumore. // E mi trova intento / a strappare in brani / i profumi delle cose. // Non so dire né perché né come  / spezzi i miei già incerti pensieri / e forse scopro / l’immensità del niente / in cui mi lascio scomparire.» 

Una raccolta densa, dunque, quella di Accettura, di non facilissima lettura, ma suggestiva e intensa.

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Sandro Marano

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