Libri. L’eterna giovinezza di Carlo Michelstaedter: una nuova biografia del filosofo

La biografia su Michelstaedter

Nel 2010 si è celebrato il centenario della morte di Carlo Michelstaedter. Da allora si assiste ad una vera e propria Michelstaedter Renaissance. L’interesse degli studiosi si è diretto sugli scritti filosofici del pensatore, come la Persuasione e la rettorica che, qualora non si fosse tolto la vita a ventitre anni, avrebbe dovuto essere la sua tesi di laurea, e che, invece, è divenuta manifesto della metafisica della gioventù, ma è cresciuta anche l’attenzione nei confronti della sua produzione pittorica e poetica. Un ruolo di primo piano nella riscoperta della crucialità dell’esperienza michelstaedteriana va attribuito a Sergio Campailla, curatore delle opere dell’isontino presso Adelphi, e autore di una biografia intellettuale e spirituale del giovane «divino».

Ci riferiamo al volume, Un’eterna giovinezza. Vita e mito di Carlo Michelstaedter, nelle librerie per Marsilio (pp. 299, euro 20,00). Campailla nel 1974 scrisse la prima biografia del filosofo, Ai ferri corti con la vita. Il nuovo volume non è un aggiornamento del primo, ma una riuscita riscrittura, che presenta e discute nuovi documenti emersi da biblioteche pubbliche e private, che consentono una ricostruzione puntuale delle vicende biografiche di Carlo. La narrazione è sostenuta da una prosa coinvolgente, atta a trasportare il lettore in una realtà storica diversa da quella contemporanea. Luoghi d’elezione del filosofo furono le città di Gorizia e di Firenze. La prima era considerata «giardino» dell’Impero austro-ungarico. Qui si era insediata da tempo, proveniente da Michelstadt, la famiglia ebraico-ashkenazita del pensatore. Il maggior merito di Campailla sta nell’aver saputo far rivivere sulla pagina il clima familiare, il mondo affettivo e le emozioni che Carlo provò assieme all’amatissima sorella Paula, ad Elda, al fratello Gino, presto trasferitosi a New York presso lo zio Giovanni Luzzatto e finito suicida. Carlo era l’ultimogenito di Alberto, assicuratore con la passione delle lettere, e di Emma Luzzatto, amatissima dal filosofo, che chiuse i suoi giorni nei campi di sterminio. Tra gli antenati del filosofo dotti rabbini, tra i parenti la giornalista irredentista Carolina Luzzatto.

Gli interessi culturali della famiglia e il «piccolo mondo antico» goriziano influirono non poco sulla formazione del futuro pensatore. Sui banchi dello Staatsgymnasium incontrò Enrico Mreule e Nino Paternolli. Il primo, che qualche anno dopo lascerà la città isontina alla ricerca della libertà nelle pampas sud-americane, diventerà per Carlo incarnazione dell’ideale della Persuasione, della vita che non chiede, che non dipende, della sufficienza esistenziale. Il secondo, la cui famiglia era proprietaria dell’omonima libreria, morirà durante una ascesa alpinistica in Slovenia, alla quale partecipava il germanista Ervinio Pocar. La soffitta di Nino, rappresentata in uno dei più riusciti schizzi a lapis di Michelstaedter, divenne il luogo degli incontri e delle discussioni dei tre giovani. Qui leggevano Il mondo di Schopenhauer e discutevano di Socrate e Buddha: «Nell’intimità di questo spazio, il tempo sembra fermo e l’assoluto si manifesta nella fenomenologia degli oggetti» (p. 251). Con i due amici, Carlo si sentiva libero di esprimere se stesso perché, come aveva potuto constatare de facto, durante le ascese alla cima del San Valentin, ambivano trasmutare, come lui, l’ascesa in ascesi, in realizzazione della consistenza.

Non è casuale che Francesco Fratta abbia definito la filosofia della Persuasione esempio di «eleatismo della pratica». Dopo il brillante conseguimento della maturità, Carlo dovette lasciarsi alle spalle il mondo dorato delle consuetudini familiari. Si recò a Firenze, con la nostalgia per quell’ambiente profondamente infissa nell’animo. Sul treno che lo portava in Italia scrisse lettere accorate ai familiari ma, giunto nella culla del Rinascimento, si immerse nella bellezza senza pari dei suoi monumenti, dei suoi musei, del suo paesaggio. Frequentò la scuola di Nudo e, in un secondo tempo, si iscrisse all’Istituto di Studi Superiori. Qui incontrò gli «amici stellari» Gaetano Chiavacci e Vladimiro Arangio-Ruiz che, dopo la sua morte, si prodigarono nel custodirne la memoria e per la pubblicazione dei suoi scritti. In Toscana ebbe luogo la sua «educazione sentimentale»: conobbe Nadia Baraden, esule anarchica russa, discendente da una famiglia di ebrei osservanti, divorziata. Carlo se ne innamorò. In alcune lettere, recentemente rintracciate, la donna accusa Carlo di essere stato troppo pressante, di averla, in qualche modo, molestata. Mentre il giovane si trovava a Gorizia, Nadia si tolse la vita. Il suicidio fece esplodere le contraddizioni e gli impulsi che da tempo covavano nell’animo del giovane. Si sentì colpevole dell’accaduto. Nella medesima congerie temporale, fallivano anche i reiterati tentativi di inserimento nel mondo letterario.

Campailla sgombera il campo da un vero e proprio pregiudizio che, per troppo tempo, è gravato su Michelstaedter: quello di essere stato un novello «persuasor di morte» e di aver messo in atto, primo Italia, un «suicidio filosofico». Tale errore valutativo è da attribuirsi a Papini, il quale, in tali termini, descrisse il suicidio del goriziano, senza neppur avere letto la sua opera. Campailla chiarisce che Michelstaedter ebbe uno sviluppo intellettuale precoce e prepotente, tale da compromettere l’ equilibrio psichico del giovane. Per motivare tale esegesi, l’ autore ricorre alla lettura psicoanalitica di episodi della vita di Carlo, di disegni e componimenti, dai quali emergerebbe il rapporto conflittuale con la figura paterna e chiari segni del complesso edipico. Tale situazione borderline fu esaltata dalle contingenze: i contrasti con la famiglia per la relazione sentimentale con Jolanda de Blasi, non ebrea; la preoccupazione suscitata dai problemi fisici legati all’aver probabilmente contratto un’infezione luetica (cosa finora non nota); la presa di coscienza del tratto borghese del padre. Ad Alberto, Carlo guardò per descrivere l’ «uomo della botte di ferro», assicurato contro la morte, ma mai in vita.

Nell’ultimo anno, il 1910, Michelstaedter si dedicò, anima e corpo, alla stesura della tesi: una requisitoria contro il sapere meramente intellettuale. In essa combatté la cultura delle parole (retorica) con altre parole. Un suo motto recita «dall’Energia alla Pace», Argia in greco, come il nome dell’amata Cassini, nella quale aveva individuato Senia, straniera alla terra e figlia del mare, che cantò nelle ultime liriche. Anche la speranza in Argia venne meno: continuò, comunque, a considerare il suicidio atto non persuaso. Il giorno del compleanno della madre, 17 ottobre, ebbe una discussione con lei. Congedò il cugino Emilio, futuro amico di Evola e, presa la pistola, si tolse la vita. Il riferimento ad Evola non è casuale. Sarà proprio lui, negli anni Venti, a testimoniare l’eterna giovinezza di Michelstaedter con l’idealismo magico.

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Giovanni Sessa

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