Cinema. Joker di Phillips, il supercriminale che sognava il cabaret

Il nuovo Joker
Il nuovo Joker

“La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo”.
Era il ’76, l’alienazione metropolitana di Travis Bickle vinceva la Palma d’oro a Cannes: quarantatre anni dopo, la New York da incubo post Vietnam di Scorsese è la medesima, immutabile Gotham City di tutti gli sconfitti, i diseredati, gli scarti del mondo,e quella stessa alienazione conquista  il Leone d’oro di Venezia.

Il filo che lega Joker – il miracolo che ha saputo, dopo la strada già spianata da Nolan, trasformare la genesi di un personaggio della DC Comics in un’inattesa gemma autoriale – a Taxi Driver e Re per una notte, non è un mistero: lo stesso Todd Phillips li ha citati come principali fonti d’ispirazione. Si potrebbe parlare per ore di tutti i rimandi a certo cinema degli anni 70 e 80, o ancora indietro, dalle atmosfere alla colonna sonora, perfetta tra l’altro nel mescolare le cupe marce della compositrice islandese Hildur Guðnadóttir a Frank Sinatra, Etta James, i Cream e Gary Glitter. Ma Joker va oltre: sa di essere un film potente, e ci riesce, ma non vuole fermarsi a questo. La maschera di Joaquin Phoenix – il cui corpo non si risparmia nel mostrarsi continuamente deformato, scarno, scomodo, e il cui volto è un impossibile e incessante fulcro tra riso e pianto – non è solo quella della malattia mentale, del disagio, della miseria umana: è la porta sul retro dell’America, e della società urbana e suburbana occidentale. Il suo Arthur Fleck, ancor prima di diventare il supercriminale nemesi di Batman, sopravvive in un mondo che lo isola, lo ignora, lo calpesta: affetto da disordini psichici di cui ha rimosso l’origine, e il cui sintomo è l’isterica e incontinente risata che lo soffoca nei momenti peggiori, sogna di diventare un acclamato cabarettista come il proprio idolo – un Robert De Niro a metà tra jerry Lewis e David Letterman – mentre il miserabile mondo che lo circonda, fatto di disadattati, freaks, ragazze madri e pagliacci falliti sprofonda tra immondizia, invasioni di ratti e criminalità. La Gotham dove si muove è una società profondamente classista, spaccata tra un’élite granitica e privilegiata che vive del tutto indifferente alle sterminate masse di abbandonati a loro stessi: e il ritratto del candidato a sindaco Thomas Wayne, l’assassinato e sempre rimpianto padre di Batman/Bruce, non ne viene fuori rarefatto e bonario come siamo sempre stati abituati a vedere fin’ora, mostrando invece tutte le contraddizioni di una classe dominante reazionaria e paternalistica. E se questa è la suburra metropolitana, ancora più desolante è l’universo intimo di Arthur, che non conosce altro contatto fisico umano se non con le botte che subisce da parte di balordi, o col corpo in disfacimento dell’anziana madre disturbata che accudisce quotidianamente: in una realtà così sconfortante, l’unica scappatoia  è fantasticare su come avrebbe potuto essere la sua vita, sulla vicina di casa, sul suo programma televisivo preferito. Ma la realtà torna: e Arthur vede punite tutte le sue velleità, tutti i suoi sogni, perché in una società come la sua – la nostra – ai fenomeni da baraccone le aspirazioni,le soddisfazioni e i desideri non sono cosentiti. E tutta la sua vita si sgretola, tutte le sue -poche- certezze si incrinano, mostrandogli l’unica verità: che la solitudine, come Travis Bickle, lo perseguiterà sempre. E allora l’autocommiserazione, la depressione,  il dolore di chi sa di non esistere per il mondo, improvvisamente, si trasformano in qualcos’altro: dal volersi autodistruggere al voler distruggere. E’ il momento esatto il cui non si punta più la pistola verso se’ stessi ma verso il mondo intero, e si preme il grilletto: ecco il Joker, ecco il Caos.

C’è chi ha intravisto la spaventosa carica eversiva, col rischio concreto di istigare moti di emulazione – con precedenti tragici, vista la strage del 2012 -, chi invece ha tacciato semplicisticamente la nascita del super villain come frutto degli abusi subìti, temendo  l’ennesima, pericolosa e facile, giustificazione del Male. Ma non sono gli abusi ad avere creato Joker, come non sono solo gli incubi del Vietnam a far impazzire Travis Bickle: è la società che li abbandona, è il sistema che li ignora e li schiaccia e li vuole soltanto vinti, invisibili, infinitesimali.
Non sorprende allora perché Joker ci affascini e ci spaventi tanto: perché se è molto improbabile e difficile saper essere e restare Batman, sappiamo che, nonostante tutti i nostri sforzi, nel nostro porco mondo a volte è molto, troppo facile – un lutto, un incidente, un fallimento, una malattia – sprofondare nell’abisso, e diventare Joker.

Claudia Raimondi

Claudia Raimondi su Barbadillo.it

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