Libri. “L’Imperatore Giuliano” di Jacques Benoist-Méchin: uomo di pensiero e di azione

L’imperatore Augusto di Jacques Benoist-Méchin

Di seguito presentiamo uno stralcio della prefazione di Giovanni Sessa al volume di Jacques Benoist-Méchin, L’Imperatore Giuliano, nelle librerie per OAKS Editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 383, euro 24,00).

Il libro che ha maggiormente qualificato lo scrittore francese Benoist-Méchin sotto il profilo letterario è, senza alcun dubbio, questo dedicato all’Imperatore Giuliano. Nelle sue pagine, egli  mostra una straordinaria capacità affabulatoria, unita ad una magistrale propensione all’utilizzo delle fonti e del dato storico documentale, che non limita, si badi, lo spazio riservato alla dimensione fantastica, come sempre accade in ogni creazione letteraria di vaglia. Il biografo francese è descrittore attento, tanto dei paesaggi esteriori, quanto del mondo interiore dei personaggi, in particolare del protagonista. In molte circostanze, anzi, interiorità ed esteriorità si sovrappongono, si ricompongono in uno, quasi a testimoniare come lo scrittore abbia colto appieno le motivazioni speculative neoplatoniche, su cui era centrata la visione del mondo giulianea, il cui presupposto di base va individuato nell’identità di Sé e Cosmo. La vivacità del narrato, dal quale emergono anche gli episodi più tragici della vita dell’Augusto, ricorda la migliore tradizione biografica anglosassone. Sono pagine, queste di Benoist-Méchin, in cui un’intera civiltà, con le luci fioche ed offuscate del mondo antico al tramonto ed il clamore suscitato dalle plebi in rivolta, emerge in immagini nitide ed indimenticabili. […]

Benoist-Méchin chiarisce, opportunamente, che Giuliano giunse alla Sapienza, e alla visione politica imperiale, per gradi. Nella personalità di questo Augusto, come ricorda Evola, uomo di pensiero e uomo d’azione convissero in uno. Egli scrisse le sue opere: «sotto la tenda, fra una marcia e una battaglia, quasi a trarre dallo spirito forze nuove per affrontare aspre vicende […] ciò che Giuliano oppose al cristianesimo nel suo tentativo di restaurazione tradizionale fu una visione metafisica». Il biografo francese che, come abbiamo visto, visse in prima linea i conflitti della prima metà del Novecento, e come accadde a Giuliano, fu denigrato dagli avversari, si identifica con le vicende del giovane Flavio. Ci ricorda che questi lavorò prevalentemente di notte alle opere speculative, per non sottrarre tempo all’azione politica che, platonicamente, restava per lui il luogo in cui di fatto realizzare la vita contemplativa, il bios theoreticos.

Il Discorso sulla Madre degli Dei fu scritto, di getto, nella notte tra il 22 e il 23 marzo 362. Il trattato Contro i cinici ignoranti, vera requisitoria in cui venivano messi alla berlina gli aspetti anti culturali ed anti sociali del cinismo, fu composto in brevissimo tempo. Tre notti ci vollero per la stesura del Discorso su Elio Re, testo risalente al dicembre del 362. Venne reso di dominio pubblico il 25 dicembre, giorno in cui si celebrava la festa del Natalis Invicti. Questo discorso è considerato il più suggestivo tra quelli dell’Augusto: in esso viene esaltata la sacralità della natura e del suo principio animatore, il Sole. Gli Ellenisti dell’epoca sostennero che Giuliano aveva, nelle sue pagine, raggiunto le vette teoretiche e poetiche di Parmenide e di Empedocle. Benoist-Méchin chiosa: «Il Discorso su Elio Re rappresenta il punto culminante della sua fede, il frutto di molti anni di meditazione e ricerche […] è una delle vette più alte, forse la più ripida e vertiginosa, che mai sia stata raggiunta da una mente pagana». A nostro giudizio, al contrario, lo scritto principale di Giuliano, sintesi della sua visione del mondo trasfusa in un’azione conseguente, è sicuramente l’editto De professoribus, del 17 giugno 362.  

Per Giuliano, lo si è visto, il cristianesimo restava religio licita, alla pari di ogni altra religione. Con l’editto De professoribus, invece, vietava ai docenti cristiani l’insegnamento della retorica: «perché considerava eticamente inaccettabile procacciarsi da vivere propagandando valori cui non si aderisce». In particolare, questa espressione lapidaria di Giuliano, ne chiarisce le reali intenzioni: «I maestri negli studi ed i dottori bisogna che eccellano prima nei costumi, e poi nell’eloquenza». L’Imperatore colpiva, con queste parole, il dualismo implicito nella dottrina cristiana che, sul piano teologico, si manifestava nel concedere ogni qualità e grandezza al trascendente, inteso come il Santo, sottraendo alla physis, alla natura, la Sacralità, e sul piano dei comportamenti, scindeva le parole, il pensiero, dall’azione concreta. E’ in questa fase storica che si afferma il dualismo di Persuasione e “rettorica”, che così intensamente sarà tematizzato nel Novecento da Carlo Michelstaedter: da un parte la via dell’intellettuale, del pensiero astratto, separato dalla vita: in essa, alle parole, non seguono mai i fatti, dall’altro la necessità, recuperata da Vico, del verum ipsum factum, della coincidenza del vero e del fare. L’Augusto colpiva, in tal modo, la cattiva coscienza cristiana, il nascente moralismo, istinto di base di ogni atteggiamento rivoluzionario, che in nome del Santo, identificato di volta in volta, con dio, la classe, la razza, la nazione o la tecnica, si ripromette di emendare il mondo, per adeguarlo alla perfezione del principio.

Coglie nel segno Giuseppe Di Riccardo nel sostenere che, dall’atteggiamento cristiano, sorse la tendenza neoclassica, che fece della cultura, non più un cultus, un «vivere a mò di», ma una tecnica, un vezzo sterile. Per Giuliano e i «pagani» la cultura doveva esprimere la virtù, trovare forma in un atto. Non è certo secondario che i cristiani, quando volevano riferirsi al «paganesismo», usassero il termine ethnos, a testimonianza del fatto che la religio da loro avversata, non era distinguibile dai costumi, dall’arte, dalla letteratura di quei popoli, espressioni diverse che manifestavano la loro immagine del mondo. Il cristianesimo, facendo proprio l’appello che Agostino rivolse ai suoi, relativo alla necessità di mettere in atto il sacro furto nei confronti della cultura classica, si appropriò della “lettera”, non dello “spirito” di quella civiltà. Sorse in tal modo: «la cultura come orpello: cliché retorico di forme e nozioni» e con esso, la società, l’educazione come noi l’intendiamo: sorse la modernità. Il cristianesimo finì per sostituire alla sacralità della vita e del mondo, la religiosità come distacco dal vivere, ma allo stesso tempo, maturò anche la tendenza ad adattarsi al mondo, al michelstaedteriano «bisogna pur vivere».

Giuliano sapeva che il cristianesimo rappresentava la rottura dell’unità di vita e pensiero e, di contro al neoclassicismo cristiano, il suo tentativo inaugurò la propensione romantica a voler ricostruire la totalità divisa. Se si vuole, come rilevato da Di Giuseppe, il suo atteggiamento inaugurò l’altro volto del moderno. Il mondo classico conobbe l’individualizzazione. La si otteneva nelle pratiche iniziatiche che muovevano dall’Io, perché questi si ri-conoscesse come Sé,  e recuperasse la sua relazione metessica con il cosmo. Il cristianesimo ridusse i processi di individualizzazione a individualismo, non conobbe il recupero del cosmo, della physis, e chi lì tentò tra gli assertori della buona novella, come Francesco d’Assisi, perse, nella storia della Chiesa, la sua battaglia. Giuliano, con l’editto De professoribus, mise a nudo il senso ultimo del cristianesimo, per questo fu odiato fino all’inverosimile. Inoltre, dalle sue opere, emerge la comprensione piena della religio antica: essa fu, per l’Augusto, vita activa, espressione che colloca Giuliano tra i platonici (neoplatonismo è vocabolo di conio moderno, i filosofi ellenistici si sentivano platonici), in quanto convito che la religio fosse un’esperienza, animata dalla tensione filo-sofica che doveva tradursi in un atto d’eccellenza a favore della Città, nella dimensione politica. Quella di Giuliano fu la Città degli dei.

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Giovanni Sessa

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