Libri. “Ritorno in Russia” di Solženicyn: la forza rivoluzionaria della verità

Solženicyn

Tra gli autori che hanno influenzato la mia formazione va sicuramente annoverato Aleksandr Solženicyn. Lessi Una giornata di Ivan Denisovič quattordicenne, sui banchi della quarta ginnasiale, tra una versione di latino e una di greco. Quel libro, che aveva concesso notorietà mondiale al dissidente russo e gli era valso il Premio Nobel nel 1970, non era solamente un manifesto intellettuale dell’inevitabilità dell’anticomunismo, ma, per la forte carica passionale che emergeva dalle sue pagine, per l’autenticità della pietas nei confronti della condizione umana, era un appello a vivere senza menzogna. Trassi da quella lettura adolescenziale un insegnamento fondamentale: la vita vera deve essere animata dalla passione per la verità. Ancora più potente impressione ricavai da, Padiglione cancro: nelle sue pagine Solženicyn utilizzava, quale metafora del comunismo, il cancro, la malattia oncologica che egli riuscì a sconfiggere in un periodo drammatico della propria vita.

   La forza delle idee dello scrittore russo, la capacità affabulatoria del grande narratore, caratterizzata dal saper trarre dal quotidiano di ognuno la dimensione epica, la si evince anche dalla recente traduzione italiana degli scritti che egli produsse dal 1994, dopo il rientro in Patria a seguito del ventennio di esilio, trascorso prevalentemente nel Vermont. Ci riferiamo a Aleksandr Solženicyn, Ritorno in Russia. Discorsi e conversazioni (1994-2008), edito da Marsilio (pp. 234, euro 22,00). Il volume è curato sa Sergio Rapetti, al quale si deve l’interessante saggio conclusivo, mirato a contestualizzare le vicende biografiche e l’iter letterario dell’autore. Al figlio dello scrittore, Ermolaj, si deve l’introduzione. In essa vengono ricordate le emozioni che l’illustre intellettuale visse, appena rientrato in patria, durante il viaggio che lo portò ad attraversare lo sconfinato paese in lungo e in largo a contatto con la sua gente.

Tutti gli scritti sono orientati a dare delle risposte al popolo russo che, in quel frangente storico, dopo il dramma del comunismo, era disorientato e confuso, viveva nell’insicurezza più assoluta, sotto il profilo politico, economico e spirituale. La certezza, cui Solženicyn fa riferimento, è che  ogni evento della storia, così come della vita personale, ha, al di là del meramente contingente : «un senso superiore» (p. 38). Nel 1994, in Russa, oltre i due terzi della popolazione viveva in povertà. La causa immediata di tale situazione era da individuarsi nella debolezza della riforma economica del sistema post-comunista, che aveva concesso libertà d’azione: «ai furfanti, ai monopolisti […] e ogni monopolista fa lievitare i prezzi come gli aggrada» (p. 39). Oltre ciò, con El’cin, molti uomini del vecchio regime si erano riciclati e ricoprivano posizioni di primo piano nella nuova Russia, né era sorta nel paese una vera dialettica politica. Solženicyn mostra palese diffidenza nei confronti del ruolo mediatore dei partiti, così come esso si è manifestato in Occidente. Quella partitica resta, inevitabilmente, una democrazia della parte, nient’affatto sensibile ai reali bisogni del popolo. Lo scrittore si fa latore di una proposta politica realmente federalista, di una «democrazia dal basso»: «realizzare un progetto comune nel proprio villaggio, oppure a livello provinciale o regionale» (p 42). 

   Da qui la necessità di ripristinate l’istituto tradizionale dello zemstvo. Il termine designa sia le persone che vivono in un dato territorio, la comunità locale, quanto la forma di organizzazione che questa popolazione, alla luce di consuetudini e tradizioni, si è data in modo autonomo: «Nel XVII secolo, durante il periodo detto “dei Torbidi”, fu lo zemstvo a salvare la Russia» (p. 59). Le comunità crearono, dopo la deposizione degli zar, le milizie popolari e cacciarono gli stranieri. Solo il ripristino di tale potere dal basso, avrebbe consentito ai Russi, alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, di liberarsi del dominio della burocrazia parassitaria, che impoveriva drammaticamente la vita del paese. Se a tali organismi dovevano essere delegati ampi poteri locali, essi dovevano essere affiancati, al fine di realizzare un efficace reciproco controllo, da un forte potere presidenziale. A dire dello scrittore, ciò sarebbe risultato possibile per il fatto che, nonostante i problemi del presente e i settanta anni di dittatura, l’ubi consistam spirituale della Madre Russia non era andato perduto. A tale patrimonio spirituale bisognava attingere, per aver contezza del fatto che la Nuova Russia aveva lasciato fuori dai suoi confini ben venticinque milioni di propri figli, che ambivano riavvicinarsi ai fratelli. Sarebbe stato necessario abbandonare le mire espansionistiche verso l’Asia Centrale e farsi prossimi, al contrario, alla Bielorussia, al Kazakistan e all’Ucraina: «nelle masse bielorusse e ucraine cresce la consapevolezza della situazione nella quale ci troviamo: milioni di rapporti familiari spezzati tra popoli che dovrebbero invece coltivare legami fraterni» (p. 67). 

   Solženicyn mira ad una rivoluzione culturale atta ad affrontare i pericoli impliciti nella «mercificazione universale» indotta dal capitalismo, così come l’utilitarismo e il materialismo marxista. Egli è, in queste pagine, nemico acerrimo del «potere del denaro». Agli uomini del nostro tempo, attribuisce un compito improrogabile: «mantenersi […] dotati d’anima […] in grado di elevarsi al di sopra del godimento della mera agiatezza» (p. 80). Egli si fa latore di una critica radicale dell’industria culturale, colpevole del pauperismo intellettuale oggi constatabile, oltre che dell’omologazione delle culture popolari. Il dissidente difende strenuamente la molteplicità delle culture, quale antidoto all’Unico esistenziale e politico, perseguito dal globalismo. Solženicyn individua nell’antropocentrismo, affermatosi a partire dal Rinascimento, la causa della decadenza contemporanea: «un antropocentrismo bastante a se stesso non è in grado di fornire risposte a molte essenziali domande che ci pone la vita» (p. 83): tale visione delle cose ci ha allontanato dal ritmo della Natura e dal cosmo. Per questo, anche oggi, è necessario difendere le identità nazionali, attraverso il recupero della memoria storico-culturale.

  Era cosciente, il nostro autore, che la comunicazione, nel mondo contemporaneo, risulta centrata sull’ipocrisia intellettuale. Mentre i nazisti erano stati, da tempo, processati a Norimberga, nessuno osava alzare la voce contro: «coloro che a Hiroshima hanno bruciato in pochi minuti 140 mila pacifici abitanti» (p. 75). Solženicyn ha, davvero, vissuto senza menzogna, pagando di persona, con il lager, la persecuzione e l’esilio, la passione di verità. I suoi scritti del Ritorno in Russia, non sono semplicemente un libro «per non dimenticare», ma uno strumento di diagnosi e terapia del presente che, mestamente, attraversiamo. 

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Giovani Sessa

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