Focus. Ortega y Gasset e il ruolo delle minoranze attive nelle società complesse

Josè Ortega y Gasset
Josè Ortega y Gasset

Viviamo in un’epoca antifilosofica. Anzi, dei filosofi si potrebbe dire quel che Palazzeschi diceva dei poeti: <<i tempi son cambiati / gli uomini non domandano più nulla / dai poeti>>. Se ci chiediamo: esiste un pensiero all’altezza della crisi epocale nella quale ci troviamo? La risposta non può che essere negativa. Fatte salve alcune filosofie ecologiche (l’ecologia profonda di Arne Naess o il principio responsabilità di Hans Jonas), dobbiamo constatare con Marcello Veneziani che <<non si avverte il respiro di un pensiero possente che si interroga dentro e oltre la crisi>>, e che <<il pensiero ripiega sconfitto in territori mentali o analitici, diventa ascetico, asettico, introverso, o si limita ad assecondare la vita corrente.>>  La tecnica e l’economia sembrano segnare il destino dell’uomo e fare del mondo un grande supermercato. 

La situazione spirituale del nostro tempo assomiglia, per certi versi, a quella contro la quale reagì il filosofo spagnolo Josè Ortega y Gasset (1883-1955). Ritenuto da Albert Camus uno dei più grandi scrittori europei, dallo stile brillante e suadente, il filosofo spagnolo rifugge nei suoi scritti – che spesso sono una raccolta di brevi saggi, conferenze, lezioni universitarie, articoli di giornale – dal tecnicismo proprio degli scienziati e dei filosofi accademici. <<Penso che la chiarezza sia la cortesia del filosofo>>, amava ripetere. I suoi scritti, infatti, possono considerarsi una sorta di dialogo col suo vasto pubblico di lettori (non necessariamente specialisti della materia); hanno un carattere vivo, discorsivo, palpitante, a volte polemico, ma anche non sistematico, aperto, problematico. 

Molteplici indirizzi filosofici convergono in Ortega, dall’esistenzialismo alla filosofia della vita, dalla fenomenologia allo storicismo, per fondersi in una sintesi originale, in un sincretismo che non ha nulla a che vedere con un facile eclettismo, ma che ha, non di rado attraverso divagazioni, citazioni, digressioni, parabole, un filo conduttore che è la meditazione della nostra vita. << La filosofia orteghiana è una delle più complesse, suggestive, e stimolanti del XX secolo, ricca di geniali intuizioni e di profetiche anticipazioni e centrata sui temi fondamentali della cultura contemporanea>>. (filosofico.net a cura di Diego Fusaro). Ed abbraccia oltre la filosofia, la storia, la sociologia, l’estetica, la letteratura. Di qui la sua attualità e il suo fascino. La sua figura ci viene, dunque, incontro sorridente e gioviale. 

Il predominio della ragione matematico-scientifica, da cui sono derivati i progressi della macchina e della medicina, l’affermarsi d’un tipo d’uomo, il borghese, che <<vuole introdursi comodamente nel mondo  e intervenire in esso, modificandolo a suo piacere>>, le pratiche utilità prodotte dalla scienza avevano determinato (e tuttora determinano), come significativamente lo definisce il filosofo spagnolo, <<l’imperialismo della fisica>>, avevano ridotto la filosofia ad ancella delle scienze col positivismo o a servizio dell’utilità col pragmatismo. Ma tutti costatiamo che <<l’umano sfugge alla ragione fisico-matematica come l’acqua dal canestrino>> e che la fede nella scienza ha cominciato a decadere, soprattutto in conseguenza dei costi ambientali ed esistenziali che il “progresso” comporta. 

Contro lo scetticismo, che nega la possibilità di raggiungere la verità e contro l’agnosticismo che volta le spalle ai problemi fondamentali della vita come la volpe all’uva nella famosa favola di Fedro, Ortega oppone l’originalità della ricerca filosofica. Se tutte le scienze colgono solo una parte dell’universo e partono da un oggetto ben definito (ad esempio, il numero nella matematica), il filosofo al contrario vuole abbracciare intellettualmente l’intero universo, pur non sapendo che cos’è e non partendo da alcun presupposto, da alcuna verità rivelata o indiscussa. Non a caso, nel  suo primo saggio pubblicato nel 1914, Meditazioni del Chisciotte, aveva felicemente definito la filosofia <<scienza generale dell’amore>>. Il fisico, come d’altronde il matematico, il politico, il biologo, e così via, <<scopre che il proprio sé non è un sé fisico, che la fisica è una delle innumerevoli cose che egli incontra nella sua vita di uomo…. Prima di essere fisico, egli è uomo e con l’esserlo egli si interroga sull’Universo, insomma filosofa, avvalendosi di tecniche speculative o spontaneamente, in modo primitivo o acculturato.>> 

La verità scientifica è una verità esatta, ma non è sufficiente per vivere, mentre la verità filosofica, benché inesatta, è una verità radicale, di più alto rango, che parla insieme al cuore e alla testa dell’uomo: <<L’uomo di scienza, il matematico, lo scienziato è colui che spezza l’integrità del nostro mondo vitale, isolandone una parte, fa di questa il suo problema>>, mentre il filosofo, avvertendo la propria finitudine, la propria umana fragilità, riconoscendo di essere parte d’un tutto di cui prova nostalgia, non si accontenta di ciò che trova nel mondo e si mette a filosofare, << perché questo è filosofare, dare al mondo la sua integrità.>> 

Il punto di partenza della filosofia di Ortega non sono astratti concetti come coscienza, spirito, Io, bensì la vita di ciascuno, l’uomo concreto calato in un mondo naturale e sociale che sente a volte come ostile e a volte come favorevole e con cui deve di continuo e sempre fare i conti.  Nelle Meditazioni del Chisciotte Ortega aveva racchiuso in una magnifica formula il nocciolo della propria ricerca filosofica: <<io sono io e la mia circostanza, e se non salvo questa non mi salvo nemmeno io>>. E soggiungeva: <<Facendo molta attenzione a non confondere ciò che è grande e ciò che è piccolo, affermando sempre la necessità della gerarchia, senza la quale il mondo ritorna al caos, considero urgente concentrare anche la nostra attenzione riflessiva, la nostra meditazione, su ciò che si trova nei pressi della nostra persona… Vita individuale, immediatezza, circostanza, sono nomi diversi per una stessa cosa: quelle parti della vita dalle quali non si è ancora estratto lo spirito che racchiudono, il loro logos. E poiché spirito, logos non sono altro che senso, connessione, unità, tutto l’individuale, l’immediato, il circostante, sembra casuale e privo di significato >>. La vita è, dunque, un dramma. E’ grazie a questo sentirsi naufraghi nelle circostanze, a questa necessità di  interpretare la nostra vita, di darle un significato, di darle sicurezza, che nasce il pensiero. E il Don Chisciotte diviene per Ortega il paradigma del filosofo, dell’uomo disorientato, smarrito, dubbioso, naufrago, che è alla ricerca di un lido su cui poggiare i piedi. 

Contro l’idealismo che a partire da Cartesio ha dominato il pensiero moderno per tre secoli e che, sottolineando la dipendenza delle cose dall’io che le pensa, finisce per ingurgitare il mondo e restare solo come l’imperatore della Cina che non può avere amici, Ortega osserva <<Dov’è, insomma, il teatro? La risposta è ovvia. Non è nel mio pensiero a formare parte integrante di esso, né tuttavia è fuori dal mio pensiero se per fuori si intende un non aver a che fare con esso; è unito, inseparabilmente unito al mio pensiero; come il diritto è unito al rovescio, la destra alla sinistra, senza che per questo la destra sia la sinistra e il diritto il rovescio…il mondo esterno non esiste senza il mio pensarlo, ma il mondo esterno non è il mio pensiero, io non sono teatro né mondo – ci siamo il mondo ed io… il mio essere è un essere con il mondo. Io sono intimità…, però insieme sono luogo di disvelamento del mondo, di quello che non sono io e che mi è estraneo… Pertanto, il dato radicale non è la mia esistenza, non è che io esisto ma è la mia coesistenza col mondo.>> Ma questo coesistere dell’io col mondo non è altro che il vivere, è il mio vedere qualcosa che non sono io, il mio amare un altro essere, il mio soffrire delle cose. 

Alla ragione dei filosofi razionalisti, alla ragione matematico-scientifica, Ortega sostituisce la “ragione vitale”, che non muove da astratte categorie, ma dalla concreta situazione storica, dalla propria vita: <<Le cose non ci dicono da sole quel che sono. Dobbiamo scoprirlo noi. Ma lo scoprire l’essere delle cose, l’essere di noi stessi e del tutto, non è altro che il lavoro intellettuale dell’uomo, lavoro che quindi non è un’aggiunta superflua ed estrinseca della sua vita, ma, che lo voglia o no, la costituisce Non si tratta per l’uomo di vivere e poi, se si dà il caso, se sente una sorta di curiosità, di mettersi all’opera per farsi alcune idee intorno alla cose. No. Vivere significa fin dall’inizio essere costretti ad interpretare la nostra vita.>> <<L’uomo è romanziere di se stesso>>, dirà icasticamente altrove il filosofo spagnolo. << La pietra non si sente, né sa di vivere… invece vivere è l’incessante scoperta che facciamo di noi stessi e del mondo circostante.>> Vivere è, dunque, trovarsi nel mondo ed occuparsi delle cose. 

Ma la condizione dell’uomo è in verità stupefacente, precisa Ortega. La vita non gli viene data già determinata o bell’e fatta, come viene imposta all’astro e all’albero la forma del loro essere. L’uomo deve di continuo e sempre fare delle scelte, ha bisogno di sapere come regolarsi con le cose che lo circondano: << Vivere è decidere continuamente ciò che siamo per essere.>> E in questo farsi, in questo progettare la propria vita, la vita è insieme fatalità e libertà. Tra le possibilità limitate che si parano davanti all’uomo – limitate dal proprio passato, dal proprio essere un sistema di preferenze e di avversioni – ce n’è solo una che sente come autentica, che si accorda con quella che Ortega chiama la propria vocazione. E’ quella che dobbiamo scegliere per essere. Certo, possiamo non seguire la nostra vocazione, ma allora falsifichiamo la nostra vita. 

Negli anni Trenta il filosofo spagnolo, soprattutto nei saggi Intorno a Galileo (1933) e Storia come sistema (1935), approfondisce la nozione di ragione vitale assimilandola alla ragione storica e unendo la curiosità della filosofia per l’eterno alla curiosità della storia per il contingente. Se la vita <<è il dramma dell’uomo quando deve sbracciarsi e nuotare, naufrago nel mondo>>,  la storia allora è <<la ricostruzione della struttura del dramma che si svolge tra l’uomo e il mondo. In un mondo determinato, e di fronte ad esso, gli uomini, con la più diversa psicologia, s’imbattono in un certo repertorio ineludibile e comune di problemi che conferisce alla loro esistenza un’identica struttura fondamentale.>> La storia è la scienza sistematica di quella realtà radicale che è la vita, è il racconto, la narrazione della vita come dramma: <<E’ impossibile capire cos’è l’uomo razionalista europeo se non sappiamo bene quel che è stato il suo essere cristiano, né capire il suo essere cristiano senza sapere ciò che è stato il suo essere stoico e così via.>>

Nel 1930 con La ribellione delle masse, che autorevoli interpreti accostano per l’incisività dell’analisi a “Il contratto sociale” di Rousseau o a “Il capitale” di Marx e che riveste una straordinaria attualità anche per il nostro tempo, Ortega prendeva in esame la crisi culturale e spirituale che travagliava  l’Europa a lui contemporanea, ravvisandone l’origine nella massificazione dei valori e dei comportamenti: <<la massa travolge tutto ciò che è diverso, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia “come tutto il mondo”’, chi non pensi come “tutto il mondo” corre il rischio di essere eliminato>>. L’uomo-massa, che non si identifica con una particolare classe sociale, è l’uomo medio, senza qualità, soddisfatto di essere quel che è. La sua “cultura” è fatta di <<luoghi comuni, di pregiudizi, di parvenze di idee, o semplicemente di vocaboli vacui che il caso ha ammucchiato nella sua coscienza>>. A questa degenerazione della civiltà, che costituisce per l’appunto la ribellione delle masse, Ortega contrapponeva la formazione di una minoranza aristocratica, che potesse orientare la vita sociale degli uomini. Il filosofo spagnolo continuerà a lungo ad interrogarsi sul ruolo delle minoranze intellettuali durante la crisi di civiltà che travolgerà l’Europa negli anni ’30 e nei decenni successivi: maturerà la convinzione che il compito dell’intellettuale non è immediatamente politico, ma consiste piuttosto nell’educare l’opinione pubblica. 

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Sandro Marano

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