Libri. L’aula vuota: Galli della Loggia e lo stato comatoso della scuola italiana

L'aula vuota di Ernesto Galli della Loggia
L’aula vuota di Ernesto Galli della Loggia

I destini dello Stato italiano e quelli della nostra scuola hanno corso in parallelo fin dal 1861. Ai momenti di significativa affermazione nazionale, nei più diversi ambiti, o alle fasi di equilibrio istituzionale e di crescita del nostro paese, si è, in genere, accompagnato un momento positivo della vita dei nostri istituti educativi. Dagli ultimi decenni del secolo XIX, quando il numero degli analfabeti, in particolare meridionali, era elevatissimo, fino al quindicennio giolittiano, segnato dal processo di industrializzazione e da tensioni sociali, la scuola ha svolto un ruolo imprescindibile: ha messo in atto la nazionalizzazione delle masse (caratterizzata da aspetti positivi e negativi), facendo partecipare, attraverso la diffusione della cultura, un numero crescente di nostri connazionali alle sorti della Patria. Oggi viviamo una devastante crisi politica e di identità, e non è affatto casuale che la scuola versi in stato comatoso.

   Come si è giunti a tanto? La storia della scuola italiana è ripercorsa con piglio critico da Ernesto Galli della Loggia, noto politologo e firma di punta del Corriere, in un agile volume intitolato, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, nelle librerie per Marsilio (pp. 239, euro 18,00). Il volume non è uno studio accademico, anche se è ricco di informazioni e in esso l’autore discute le tesi di pedagogisti e legislatori, attraversando in modo organico le diverse stagioni della scuola italiana, soffermandosi, in particolare, nell’analisi delle riforme che si sono succedute nel corso del tempo, alcune delle quali responsabili della distruzione della scuola. Le pagine di Galli della Loggia sono sostenute da passione civile e sono il risultato di una constatazione drammatica: la scuola italiana non svolge più la funzione formativa che, da sempre, le è stata demandata. Dopo le prime riforme della Destra storica e della Sinistra di Depretis, cariche di stimoli positivi, così come di ambiguità e contraddizioni, non ultima quella di demandare gli oneri dell’edilizia scolastica e della retribuzione dei docenti alle amministrazioni comunali (da sempre senza disponibilità finanziaria!), lo Stato con la riforma Daneo-Credaro del 1911 rese pubblica la scuola primaria.

   Momento apicale nella storia della scuola italiana è certamente rappresentato dalla sua prima riforma integrale, attuata da Giovanni Gentile. L’autore sgombera il campo dalla vulgata dominante, imposta dal progressismo pedagogico, che vede in essa l’affermazione di una scuola autoritaria, fuori dal tempo, sic et simpliciter, fascista. Tale riforma fu innanzitutto: «il tentativo[…] di tornare a far confluire istruzione ed educazione in un tutt’uno […] il tentativo di riprendere la direzione originaria del progetto liberal-borghese ottocentesco mirante a fare dell’istruzione d’impronta umanistica la matrice dell’educazione alla cittadinanza» (p. 92). Il filosofo attualista era convinto che il fascismo portasse a coerenza l’incompiuto Risorgimento: riconosce, il nostro politologo, che la riforma registrò il consenso della migliore intelligenza patria, da Salvemini a Croce. Centrale, soprattutto nel liceo classico, diveniva la figura del docente a cui  era affidato un ruolo demiurgico, centrato su passione, competenza ed esempio. Il docente-demiurgo doveva svegliare gli «animi» dei discenti, al fine di formare un classe dirigente che avesse effettiva contezza del proprio ruolo. 

    A ciò contribuiva l’Esame di Stato, la mitica maturità, le cui commissioni erano composte da docenti esterni, in prevalenza universitari. Nel 1924 solo il 53 per cento dei maturandi degli istituti magistrali ed il 54 per cento dei maturandi del liceo classico superarono la prova. Dati che, confrontati con i promossi all’esame di Stato di quest’anno (99,5 per cento o giù di lì), la dicono lunga sulla scuola dei nostri giorni. La fascistizzazione della scuola la si realizzò con la Carta di Bottai che, approvata alla vigilia della guerra, non entrò mai in vigore. Essa presentava tratti antiborghesi: avrebbe dovuto mirare alla formazione dell’«uomo nuovo». Prevedeva, inoltre, la creazioni di Collegi di Stato per gli allievi meritevoli ma bisognosi e privilegiava l’educazione sull’istruzione. In ciò, giustamente, l’autore rileva il fil rouge che lega la scuola del fascismo a quella «democratica», aperta alla vita e al mondo del lavoro, al rapporto con le famiglie, che si affermerà con l’Italia repubblicana.

   Tratto saliente delle numerose riforme scolastiche repubblicane può essere individuato nell’utopia della liberazione: «L’istruzione […] è occasione per costruire, magari sotto l’egida di una Costituzione immaginaria, una comunità di liberi e uguali» (p. 235). Tale utopia ha trovato il proprio momento apicale con il diffondersi dell’antropologia desiderativa predicata dalla filosofia francofortese. Suo assunto il proverbiale: «Proibito proibire» che aveva, quale correlato, la necessità di realizzare l’uguaglianza educativa. Don Milani interpretò, nel bene e nel male, tale tendenza meglio di altri. L’autore nota che, della sua Lettera e delle esperienze della Scuola di Barbiana, i legislatori scolastici e i pedagogisti progressisti hanno fornito una lettura assolutamente parziale. Hanno omesso, tra le altre cose, di ricordare che Don Milani riteneva le classi differenziali, quando rette da docenti capaci, una buona cosa. Inoltre, la sua proposta educativa non implicava l’assolutizzazione della promozione, oggi vigente in ogni ordine e grado della scuola, ma solo la promozione all’interno del ciclo della media inferiore. Per di più, la licenza media, doveva esser concessa solo se il discente avesse mostrato un’adeguata acquisizione di conoscenze e competenze.

   Attraverso i Decreti Delegati la scuola si è aperta al regime assembleare permanente, che oggi sopravvive in modo formale. Alle elezioni dei Consigli di classe partecipa una minoranza residuale di aventi diritto al voto, soprattutto per quanto attiene alla componente genitori. Eppure, ogni anno, la scuola continua a celebrare i suoi ludi cartacei. Una scuola nella quale trionfano le sigle burocratiche POF, PTOF e  molte altre, una scuola di programmazione nella quale, inutile rilevarlo, si privilegia il fare nei confronti del sapere. Il rapporto con il libro è diventato inessenziale, le ore dell’ozio studioso sono ritenute superflue, da docenti e studenti. L’aula è davvero vuota. La scuola, organo della trasmissione dei valori, per ritrovare se stessa deve tornare a porsi al servizio del sapere, sottraendosi tanto al modello consigliare che a quello d’impresa, per formare italiani ed europei consapevoli della loro storia e, quindi, del loro destino.

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Giovanni Sessa

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