Cultura. Addio a Massimo Mazzetti accademico monarchico e collaboratore di Bottai

Massimo Mazzetti
Massimo Mazzetti

 Ho appreso in ritardo, dal necrologio di un periodico d’ispirazione monarchica, “Opinioni Nuove”, la notizia della scomparsa di Massimo Mazzetti, professore emerito di storia contemporanea all’università di Salerno. Per chi affida le sue ricerche al web, Mazzetti è pressoché uno sconosciuto. Non esiste una pagina di wikipedia dedicatagli, né, conoscendolo, credo che l’avrebbe desiderata. Per me, invece, non era uno sconosciuto e fu una delle poche persone che cercarono, senza successo, di avviarmi alla carriera universitaria.

Mazzetti era un esperto di storia militare, era stato ufficiale di complemento, e credo che rimpiangesse il suo servizio di prima nomina come il periodo più felice della sua vita. Viveva e insegnava a Salerno, dove l’aveva portato la carriera del padre, Roberto, provveditore agli studi e poi ordinario di pedagogia, tipico esponente di quella cerchia di studiosi e docenti che Giuseppe Bottai aveva saputo valorizzare, nominandoli ispettori centrali o provveditori per “alta fama”, tanto da accendere sui vertici di Viale Trastevere un’ipoteca destinata a estinguersi solo negli anni ’70. Aveva collaborato alla redazione della “Carta della Scuola”, con cui Bottai, come fu scritto argutamente, mise in camicia nera Dewey, il teorico statunitense della pedagogia attivistica. Dopo l’8 settembre non aderì alla Repubblica Sociale, che lo epurò, e questo lo salvò dalle successive epurazioni. Era di origini emiliane; di qui una giovialità e un gusto della buona tavola che avrebbe trasmesso al figlio.

Massimo Mazzetti era un convinto cattolico e un fervente difensore di Casa Savoia; per qualche tempo fu alla guida del Fronte monarchico giovanile. Quando, da ufficiale di complemento, fu chiamato a prestare giuramento individuale (quello collettivo si poteva facilmente eludere, gridando “mulo”, o altro, invece di “lo giuro”), escogitò un singolare compromesso. Al momento di promettere “fedeltà alla Repubblica Italiana ed al suo capo”, il regolamento prescrive che l’ufficiale faccia il saluto. Mazzetti, invece, rimase sull’attenti, ma senza salutare. Il colonnello gli inflisse seduta stante quindici giorni di arresti di rigore, ma dopo gli strinse la mano e gli disse “Bravo!”. Ancora negli anni ’60, buona parte degli ufficiali superiori era rimasta monarchica. L’Esercito Italiano era rimasto un po’ Regio Esercito.

Gli esordi scolastici di Massimo non erano stati facili, anche per lo scoglio del difficilissimo esame di maturità, ma, arrivato all’università, si rifece. La passione per la storia militare – un terreno ancora poco battuto dagli accademici, anche per una certa forma di antimilitarismo – lo spinse a scrivere alcune opere di indubbio valore, sull’esercito italiano dall’unità alla grande guerra, e una grande sintesi sul primo conflitto mondiale pubblicato con le Edizioni Scientifiche Italiane nello stesso volume in cui Francesco Perfetti trattava il dopoguerra e il fascismo. Un saggio egregio per equilibrio e chiarezza, come del resto quello di Perfetti. Nella sua opera di ricerca era avvantaggiato dalla fiducia riposta in lui dai vertici militari, per le sue convinzioni. L’archivio storico dell’Esercito, in via Lepanto, era all’epoca precluso o aperto con molte restrizioni a studiosi di convinzioni antimilitariste, che avrebbero potuto, come in seguito è avvenuto, utilizzare documenti scabrosi, isolati dal loro contesto storico, per infangare l’onore del soldato italiano.

Presentato da amici comuni, Perfetti mi incoraggiò a raccogliere in volume, in vista di un concorso a ricercatore, alcuni saggi che avevo pubblicato sulla rivista “Intervento”, delle edizioni Volpe, e a svolgere alcune ricerche di storia militare, in particolare un saggio sulle origini della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Con molta generosità mi accolse nella sua abitazione di Salerno per alcuni fine settimana, in modo da mettere a punto il lavoro. Ho un ricordo al tempo stesso commovente e imbarazzato di quei soggiorni. Per arrivare in tempo, salivo intorno a mezzanotte su un espresso a Firenze Campo di Marte, dove avevo prenotato una cuccetta di prima classe, sfruttando gli sconti all’epoca concessi ai pubblicisti. Arrivavo a Salerno verso le sette e compravo per sdebitarmi dell’ospitalità una sontuosa pastiera in una pasticceria, poi mi recavo lentamente a casa sua. Ma qui cominciavano i guai. Mentre la moglie e la fantesca cercavano di far fare colazione e preparare per la scuola la numerosa prole, in perenne ritardo, Massimo dormiva saporitamente. Prima delle undici era difficile parlare del mio saggio, anche perché Mazzetti sosteneva che per poter svolgere una ricerca congrua avrei dovuto assolutamente leggere la tesi di una sua laureata sulla Guardia Regia, il corpo di polizia fondato da Nitti e sciolto da Mussolini quando istituì la Milizia. Ma la tesi non si trovava mai e Massimo preferiva parlarmi delle sue esperienze militari, degli splendidi soldati sardi che aveva comandato nella guardia a una polveriera, e dei meriti del generale Cadorna, che da buon cattolico difendeva contro il “massone” Diaz. Sopraggiungeva l’ora del pranzo, con relativa “controra”, e della cena, al termine della quale Mazzetti, padre amoroso ed esemplare, insegnava ai figli l’inno dei lupetti. Verso le undici Massimo sarebbe stato abbastanza lucido da parlare del mio lavoro, ma non lo ero io, che la notte prima, in cuccetta, avevo dormito sì e no sei ore. E tutto veniva rimandato alla visita successiva. Così il mio saggio rimase incompiuto.

Un giorno, doveva essere il 1981, il professor Mazzetti mi chiamò d’urgenza, dicendomi che presso la sua cattedra (era già ordinario) si era liberato un posto di ricercatore da mettere a concorso. Mi trovò a Salerno un tipografo editore presso cui pubblicare la mia raccolta di saggi e feci corse disperate fra prime e seconde bozze per arrivare in tempo. Quando ci riuscii, il posto non c’era più. La morte del padre Roberto, che pur essendo in pensione era stato un esponente di spicco del mondo universitario salernitano, doveva avergli sottratto potere accademico. Continuammo a frequentarci, ma ormai ero preso da altri impegni e alla fine ci perdemmo di vista.

Lo incontrai di nuovo nel 1996, a casa di Giano Accame, nel lungotevere dei Mellini, mentre, visibilmente compiaciuto, stava affettando un’enorme porchetta. Era parte del buffet offerto ai relatori del convegno su Carlo Delcroix, padre di Rita, la moglie di Accame, di cui egli, insieme a me, all’onorevole Trantino, allo stesso Accame e a molti altri, era uno dei relatori.

Da allora non l’ho più rivisto. So che non era stato bene, e ho sentito alcuni storici cui era stato di grande aiuto agli esordi della loro carriera accademica parlare di lui con un po’ di sufficienza. Ma preferisco ricordarlo così, con in mano una grande “coltella” e nel cuore le sue forse un po’ ingenue simpatie sabaude. Facendogli, magari, quel saluto militare che lui si era rifiutato di fare all’indirizzo di Saragat.

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Enrico Nistri

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