La storia (di P. Isotta). In memoria di Gabriele Ghezzi, l’amore vince anche la morte

Ho da raccontare una storia tristissima e bellissima.

Alcuni dei miei amici del cuore risiedono a Milano; e sono per lo più milanesi. C’è un nucleo storico risalente agli Ottanta. Ho lavorato nella città di Sant’Ambrogio dal 1974 al 2015: nella cosiddetta professione non ho avuto amicizie, e persino poche solidarietà, se si eccettua Vittorio Feltri e qualche defunto. Il nucleo storico si formò per cooptazione. Dapprima una diade: Stenio Solinas e io. Attorno a essa gli altri si raggrupparono: Roberto Zavaglia, Angelo Cassanelli, Francesco Bergomi, Luciano Pignatelli, indi, più tardivi, Roberto Giussani e Luigi Corbani. Diversissimi fra noi, eppure dotati d’un affetto, una reciproca comprensione, uno spirito di corpo, che posso definire solo meravigliosi. Ci vedevamo, ci vediamo e ci vedremo, al ristorante, giustificazione per gl’incontri. Ma le riunioni più intense avvenivano nella bellissima casa di via Rossini di Gabriele Ghezzi. Gabriele se n’è andato questa notte dopo una lunga malattia che abbiamo vissuta tutti con angoscia.

Era un industriale, il tipico laborioso milanese dotato d’inventiva e qualità di leader: nel suo ramo, lo era. Ma era uno degli uomini più spiritosi che abbia conosciuti. In queste ore rievoco le sue battute: si affollano alla memoria talmente che traboccano. Mi pare di rivivere i singoli momenti di quest’amicizia, che nel ricordo sono innumerevoli e tutti compresenti.  Perché i milanesi d’antico ceppo posseggono uno straordinario senso dell’umorismo oggi inimmaginabile dato il melting pot che questa città è diventata. Gabriele sapeva fare tutti i dialetti, anche quelli del sud, cogliendo la differenza tra Napoli, Castellammare, Torre Annunziata, Pontecagnano, Bari, Foggia, Palermo. Ci telefonavamo di continuo per passarci le ultime barzellette. Più di trent’anni fa frequentavamo un festival musicale a Salerno (da lui ribattezzato “Salierno festivàl”) e una notte, per l’imitazione che dava dell’organizzatore, tornando a Napoli in macchina, Roberto Zavaglia s’intese male per il troppo ridere. Un’altra sua specialità era l’imitazione del nostro (meraviglioso) sarto Michele Siano, originario di Fisciano (sempre Salerno) con l’àtelier in via Cerva, che tentava di toscaneggiare, e non riusciva né nell’italiano né nel napoletano. Come il m° Muti.

Gabriele non era un “intellettuale”: altrimenti non l’avremmo frequentato, nessuno di noi essendolo e anzi avendo per tratto comune il disprezzo per l’”intellettuale” di professione. Ma era un uomo colto e, soprattutto, dotato d’una fortissima spiritualità. Tuti ricordiamo il duro periodo quando s’innamorò perdutamente di Laura, che non lo voleva. Egli la seppe corteggiare con una pazienza, una cortesia, un à propos, tali, che alla fine ella cedette. Non per stanchezza, come dopo i lunghi assedî, ma perché con la sua intelligenza e finezza, capì chi fosse Gabriele. Dal loro matrimonio è nato Stefano; e loro gli hanno voluto dare un fratello minore, adottato in Sudamerica, il più delizioso monello che conosca, Daniel. Poi, e per noi importantissimo, Laura è diventata la sorella di ognuno di noi.

Ho visto Gabriele l’ultima volta a settembre, a Santa Margherita. Era stato operato due volte. Non ho mai incontrato tanta serenità (non dirò stoicismo) di fronte a una morte certa e prossima. Faceva finta di niente; e finché ha potuto, anche paralizzato a letto, si faceva raccontare barzellette dagli amici che non l’hanno lasciato un giorno. Ma ciò che hanno compito per lui Laura e i figli è di questi tempi incredibile. Non hanno voluto che morisse in ospedale. Non hanno voluto venisse assistito da pur pietose mani di estranei. L’hanno assistito giorno e notte per quasi un anno: loro, e solo loro. Di fronte a un caso siffatto s’impara a rispettare gli esseri umani; a riconoscere che ce ne sono di migliori di noi. Perché l’amore esiste: e questo ne è una prova.

Gabriele era profondamente religioso.  Lui è riuscito a dare a modo suo un senso a tanta sofferenza. Io posso solo ricordare quel che Maeterlinck mette in bocca ad Arkel nel Pelléas et Mélisande: “Si j’etais Dieu, j’aurais pitié du coeur des hommes.” Ossia: “Se fossi Dio, avrei pietà del cuore degli uomini”. E se Dio esistesse, Gabriele avrebbe diritto ora di vederlo.

 

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*Da Libero Quotidiano del 27.06.2019

Paolo Isotta*

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