Calcio. Dolorosi equivoci: Maurizio Sarri non è (e non sarà mai) il nuovo Zeman

Caro Fernando,

ho seguito come te la conferenza stampa juventina di Maurizio Sarri. Mi è parso strano vederlo in giacca e cravatta; lui stesso, ha gigioneggiato sul punto: in tuta o in smoking, “basta che alla mia età non mi lascino andar in giro nudo”.

Ho riso alla battuta. Non perché fosse particolarmente brillante, ma perché ho pensato che era già da tempo che s’era svestito, andandosene all’oligarchico Chelsea, dei panni da studente russo di cui s’era lasciato abbigliare a Napoli.

Se lo avete creduto Trotskij ieri, non pensate che sia un Efialte oggi. In primo luogo perché, credo, sia sbagliato paragonare la Juve ai Romanov decadenti. Gli Agnelli non sono mai stati in salute quanto lo sono ora e ai ricchi, adesso più che mai, si stendono tappeti. Lontani sono i tempi di quando Christian De Sica e Diego Abatantuono esaltavano gli italiani prendendo a maleparole gli snob borghesi e classisti nelle pellicole di Natale.

Ci sei rimasto male, come milioni di sportivi e non, quando Sarri ha detto che ha considerato l’approdo alla Juventus quale il coronamento di una carriera. Però in fondo, ha ragione: gli sarà tornato alla mente di quando lo esonerarono a Sorrento.

Di lui s’è fatta oleografia ma Maurizio Sarri è un uomo del suo tempo. Che fa del “professionismo” un valore. E mentre Roma rinuncia a Totti e De Rossi, mentre Antonio Conte se ne va all’Inter, non si capisce perché dovrebbe lui mantenere alta una bandiera che, ipse dixit, aveva cucito e issata per render più tenace e spietata la corsa dei suoi all’obiettivo scudetto, alla “presa del Palazzo”.

Ciò a dire: Sarri fa parte, a pieno titolo, del calcio moderno e ne è pienamente cosciente. Di sicuro il suo volto, le sue parole, la sua stessa storia sono molto più interessanti di quelle che dobbiamo sorbirci dal mainstream internazionale. Viene più facile fare il tifo per lui, che viene su dal nulla, rispetto al “solito” Zidane fatto accomodare sulla panchina del Real Madrid.

Perché il ruolo dell’allenatore è controverso. E, spesso, come si assume responsabilità non sue, si fregia di meriti che non gli sono del tutto propri. Se Sarri non si fosse ritrovato in squadra, gente come Mertens e Koulibaly probabilmente staremmo parlando di tutt’altro. E delle sorti del “comandante” non interesserebbe nulla a nessuno.

E a proposito del bel gioco, il Verbo della Rivoluzione, passata da taluni per grandissima epifania nuova del futbol sul golfo di Partenope. Il bel gioco che non vince ma ci arriva molto vicino non è mica una novità a Napoli. Solo che di un grande cuore azzurro del passato come Luis Vinicio s’è evidentemente sbiadito il ricordo.

Credo, dunque, che l’equivoco sia di fondo. Sarri è un lucido visionario calcistico ma non è abbastanza folle per mandare tutto a ramengo facendo guerre di principio. Sa bene che a lui si chiedono risultati e che il gioco è bello, sì, ma quando porta i punti. Lo sa che gli azionisti hanno meno pazienza degli stessi tifosi. La narrazione è qualcosa che aiuta a spiegare, a interpretare e, nel caso, a giustificare vittorie e fallimenti. Altrimenti non avrebbe accettato oggi la Juve e ieri il Chelsea. E non sarebbe andato tanto d’accordo, per un certo periodo, con lo stesso De Laurentiis.

Il calcio non è più un gioco per idealisti, ma da tempo, ormai. Ci ha illusi per un po’ l’ultimo dei romantici, Zeman il Grigio. Ma di gente come lui, disposta a buttare alle ortiche una carriera per combattere contro certi mulini a vento, non sembra ce ne sia più tanta in giro.

 

 

 

 

 

Giovanni Vasso

Giovanni Vasso su Barbadillo.it

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