Cultura (di P. Isotta). “Il fantasma dell’Opera” di Quirino Principe, la musica e l’identità

Quirino Principe mi toglie il non invidiabile privilegio di essere il decano fra gli storici italiani della musica. Mi auguro continui a lungo a togliermelo. È scrittore di cultura sterminata: non solo nella musica, ma nella germanistica e nella classicità greca e latina. Fu, tra l’altro,  lui, molti decenni fa, a scoprire e introdurre in Italia Tolkien, riaprendo, soprattutto ai giovani, quella dimensione verso il fantastico e la fiaba, che poi si chiama il Mito, senza di che la nostra vita sarebbe schiacciata nelle contingenti preoccupazioni e nell’esercizio di una politica bassa.

Adesso la Jaca Book, non più portavoce editoriale di “Comunione e Liberazione”, pubblica il suo ultimo libro, firmato il 14 dicembre scorso: Il fantasma dell’Opera. Sognando una filosofia (pp. 363, euro 30). Già le dobbiamo un ringraziamento per il pubblicare (e con un’attenzione editoriale rara: ho controllato le citazioni greche, latine, tedesche, castigliane – Borges non può mancare!) un libro così contrario alle idee correnti. Dirò di più: un libro costruito in modo così extravagante, con apparente divagare alla Sterne, che mi piace indicarne qualche linea guida alla vasta schiera dei cultori dell’autore. “Though this be madness, /Yet there is method in ‘t”, dice Polonio di Amleto nel secondo atto di Shakespeare: “Sebbene questa sia follia, pur in essa c’è una logica”. Se ne accorgerà a sue spese: si trattava, come qui si tratta, di metodo ferreo nascosto nel divagare.

Il primo capitolo è il più arduo filosoficamente, quasi l’autore volesse allontanare dapprincipio i lettori non all’altezza. Parte dalla sentenza delfica, notissima nella traduzione Conosci te stesso, pur se d’interpretazione molto complessa. La più semplice, e a me la più vicina, è in un sepolcro romano con mosaico oggi conservato alle Terme di Diocleziano: vi si vede uno scheletro e l’agghiacciante motto. Principe affronta invece un discorso filosofico sull’identità autentica dell’anima dell’Occidente, e parte, com’è ovvio, da Eraclito. Egli ritiene, come non molti, che a quest’anima l’identità giudeo-cristiana si sia sovrapposta senza realmente mutarla. Ricercatala, ne individua un aspetto precipuo: il Teatro d’Opera, che, come tutti sanno, nasce nel Cinquecento dall’aspirazione umanistica a ridar vita, attraverso dapprima la Favola Pastorale, alla Tragedia Greca: ch’era musicata e non in prosa.

Poi si lancia in una ricognizione di Faust, dell’anima faustiana – ch’ è sempre quella – e della sostanziale sua identità, più che alterità, con il Demonio. Il Finale in cielo del Faust II, l’estremo capolavoro di Goethe, viene interpretato in una chiave panteista e non cristiana: lettura originale ma, alla fine, conosciuto Goethe, per nulla improbabile. Infine, la peroratio: un’appassionata difesa di quella che Principe chiama la musica forte (non “classica”) contro la debole, un’apologia che mette capo alla difesa dell’Opera come segno dell’identità culturale dell’Occidente. Difesa contro i suoi nemici: l’ignoranza di pubblico, interpreti, soprintendenti, malvolere, oltre che ignoranza, delle cosiddette autorità culturali.

Ha ancora possibilità di essere esercitata, questa difesa? Guardate al destino di Giuliano detto l’Apostata, un filosofo e sommo combattente in trono. Pochi anni dopo la sua morte, Teodosio cominciò a mandare al rogo gli ostinati credenti in Apollo e Giano; mentre i cristiani si mandavano al rogo fra loro stessi, e lo fecero per ben più di mille anni.

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*Da Il Fatto Quotidiano del 6.4.2019

Paolo Isotta*

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