Cultura. I cento anni di “Autunno del Medio Evo” di Huizinga

Johan Huizinga
Johan Huizinga

Herfsttij der Middeleeuwen (Autunno del Medio Evo) è una celebre opera dello storico olandese Johan Huizinga, uscita ad Haarlem nel 1919, cento anni fa. 

La definizione è attribuita ai periodi del Trecento e del Quattrocento, visti come un colorato, scintillante riepilogo e, insieme, il tramonto della civiltà medioevale e dell’arte tardogotica. Continuità con quella alta civiltà, ma anche il senso della sua fine; nostalgia per il mondo che sta scomparendo, ma pure sentimenti di precarietà, di morte, da cui l’uomo cerca di evadere sfuggendo alla malinconia, per rifugiarsi nella dimensione del sogno in contrapposizione, quasi, alla esplosione gioiosa della vita, dell’arte, della cultura che il Rinascimento preannuncia. Un’epoca segnata da aspre lotte politiche e religiose e dal diffondersi della peste nera. L’atteggiamento nei confronti della religione oscillò allora tra un sentimento di autentico fervore spirituale ed un atteggiamento di indifferenza, scetticismo e persino derisione. La moralità corrente, in quell’epoca, conobbe le più elevate forme di ascesi e le più infime di violenza e crudeltà.

Il secolo XIV fu in Europa un’epoca di crisi, sommando, probabilmente, una crisi climatica (un abbassamento generalizzato delle temperature) ad una assai negativa congiuntura agricola ed alimentare. La Grande Carestia del 1315-’17 segnò l’inizio di un secolo che ebbe il suo tragico seguito nella Epidemia della Peste Nera, del 1348, ed altre cicliche pandemie nei decenni successivi, che ridussero di un terzo la popolazione continentale. Straordinarie le pagine dedicate da Huizinga ad uno degli esempi di quel peculiare genere artistico rappresentato dai “Trionfi della Morte” e dalle “Danze Macabre”, come il celebre affresco del cimitero parigino degli Innocenti, sotto l’ossario sud. Dipinto in memoria di Luigi d’Orléans, fratello del Re Carlo VI, assassinato in piena Parigi. Distrutto nel 1669, al demolirsi il muro.  

Una personificazione allegorica della Morte, uno scheletro umano che invita personaggi di differente condizione sociale a danzare attorno ad una tomba: le pape et l’empereur, le cardinal et le roi, le patriarche et le connétable, l’archevêque et le chevalier, l’évêque et l’écuyer, l’abbé et le bailly, le maître et le bourgeois, le chanoine et le marchand, le chartreux et le sergent, le moine et l’usurier, le médecin et l’amoureux, l’avocat et le ménestrel, le curé et le laboureur, le cordelier et l’enfant, le clerc et l’ermite… (Huizinga mantenne tutte le citazioni in francese antico, traducendole nelle note). La Morte ricorda loro quanto i piaceri mondani siano effimeri e muoiano presto. A partire dal secolo XIII la “Danza della Morte” si converte in un tema iconografico ricorrente in quasi tutte le manifestazioni artistiche. Il gusto per il  macabro ripropone la critica alla vanità umana, ammonisce sulla fine delle glorie del mondo e l’effimero di tutto ciò che costituisce la vita terrena. Senza schiudere, se non eccezionalmente, una ipotesi di salvezza in termini di sublimazione mistica.

Le rappresentazioni del decesso divengono sempre più evidenti nel corso della seconda metà del Trecento, mentre micidiali ondate di peste si abbattono sulle sbigottite popolazioni europee. La crudeltà ed il terrore – retaggio di quel concetto di morte sempre presente, al punto da considerare la fine di una vita una sorta di suprema ambizione – e le efferatezze, le esecuzioni capitali terribili erano l’inconsapevole tripudio delle paure di ogni ora, dimenticate illusoriamente  nella lunga agonia dei condannati. Questo atteggiamento era una sorta di sacrificio propiziatorio alla dea imperante, alla Morte. L’uomo giusto non solo non provava compassione per il peccatore punìto, egli anzi si rallegrava e gioiva di fronte allo spettacolo della giustizia che trionfava. Huizinga ci offre un quadro di straordinaria bellezza, il ritratto di anni in cui il passaggio dall’ombra alla penombra, e poi ad un tenue chiarore, segue un percorso logico che sfocerà nell’ebbrezza del Rinascimento. 

Esposti ai pericoli sovrastanti, gli uomini dell’Autunno del Medio Evo non trovarono autentica linfa nella religione, al di là delle “Danze Macabre”, che presentò piuttosto un declino con l’aumento degli agnostici, un capovolgimento di quel memento mori, lungo ed elaborato periodo di preparazione al trapasso, come se l’esistenza avesse avuto una ragione di essere solo in funzione della morte. Esplode, pur inizialmernte timido, un attaccamento spasmodico alla vita, all’arte, alle ragioni della ‘materialità’ e dei sensi più che non dello spirito, come era stato  nell’Alta Età Media. 

Con L’Autunno del Medio Evo, lo storico olandese sottolinea essenzialmente la continuità tra l’Età di Mezzo ed il Rinascimento. Un’intuizione talmente innovativa da causare addirittura lo sdegno degli addetti ai lavori quando il libro vide la luce! Da allora, l’opera di Huizinga è stata ampiamente rivalutata, commentata, ammirata, tradotta e diffusa in tutto il modo, convertendosi in uno dei massimi best-sellers del genere. Un testo accattivante, notevole per il rigore storico che lo  informa e satura, e pure per il fascino armonioso della narrazione. Huizinga si caratterizza infatti per la brillantezza e la fluidità dello stile, l’acutezza descrittiva dei contenuti. L’Autunno del Medio Evo individua nei miti e nelle leggende, nei riti dell’amore, dell’onore, nei simbolismi e nelle allegorie, i caratteri originali di quell’età. 

Le sue ricerche si concentrarono sul Ducato di Borgogna, prendendo in esame i sentimenti diffusi, i sogni, la percezione della vita, i rituali ed i comportamenti, la mentalità. L’ efficacia pittorica delle sue pagine, rievocando il mondo sognante e talora dorato della Borgogna tardomedievale,  è seducente, magnifica.

Rende bene l’idea dei contenuti anche solo una scorsa ai titoli dell’Indice:

  1. I toni crudi della vita.
  2. Il sogno di una vita più bella.
  3. La concezione gerarchica della società.
  4. L’idea di cavalleria.
  5. Il sogno d’eroismo e d’amore.
  6. Ordini e voti cavallereschi.
  7. L’importanza militare e politica dell’ideale cavalleresco.
  8. Lo stile dell’amore.
  9. L’etichetta dell’amore.
  10. L’immagine idillica della vita.
  11. L’immagine della morte.
  12. Il pensiero religioso e le sue rappresentazioni figurate.
  13. Tipi di devozione.
  14. Commozione  religiosa e fantasia religiosa.
  15. Declino del simbolismo.
  16. Il “realismo” ed i limiti del pensiero figurato nella mistica.
  17. Le forme del pensiero nella vita pratica.
  18. L’arte nella vita.
  19. La sensibilità estetica.
  20. Immagine e parola
  21. Parola ed immagine.
  22. L’avvento della nuova forma.

Come ha scritto il grande filosofo Eugenio Garin, che ha redatto l’Introduzione a tutte le edizioni italiane dell’opera apprestate negli anni da Sansoni: 

 

“Un capolavoro assoluto della letteratura olandese, ma dovrei dire ormai europea! Pochi sono riusciti ad entrare, come Huizinga, nella mentalità stessa delle persone di quel tempo, di quel periodo di transizione tra Medioevo e Rinascimento. Riesce magistralmente a dare il senso di un’epoca che sta per finire, ma lascia ancora parecchi strascichi, ed un’epoca che pur spingendo prepotentemente è ancora troppo giovane. Ma il pregio maggiore di questo saggio, oltre alla leggibilità, è la capacità di saper cogliere i pensieri delle persone, e di farceli conoscere”.

 Ha altresì commentato Garin: 

“Quel che Burckhardt aveva fatto per l’Italia Huizinga faceva per la Borgogna, col duplice risultato di superare la rottura Medioevo-Rinascimento, e di sfumare l’autunno medievale nella primavera rinascimentale tanto da dare l’impressione che i toni serali dell’uno e quelli aurorali dell’altro si rassomigliassero fino a confondersi”. 

Prima edizione, Haarlem, 1919

Non trascinato dalla ricerca della novità nelle fasi storiche studiate, Huizinga, al contrario dello studioso suggestionato dall’idea ‘storicista’ ed ‘hegeliana’ di progresso (alla Benedetto Croce, per capirci), è interessato a cogliere nel passato la forma in cui una vecchia idea muore ed una nuova idea nasce. Per questo egli colloca in piena età rinascimentale la fine della civiltà medievale divenuta come: “un albero completamente sviluppato e carico di frutti troppo maturi”.

              

Johan Huizinga (Groninga, 7 dicembre 1872 – Arnhem, 1º febbraio 1945) è stato uno storico e linguista, un cultore di filologia comparata, che si può collocare nella linea tracciata dallo svizzero Jacob Burckhardt, specialista di ‘Storia Culturale’. La visione storica di Burckhardt prospettava l’esistenza dominante di tre essenziali fondamenti, indispensabili per comprendere il divenire della storia: lo Stato, la Religione, la Cultura. 

Considerato oggi uno dei massimi  storici del XX secolo, Huizinga ha svolto studi sul Medio Evo e la storia moderna, lasciando contributi anche alla linguistica, all’estetica e ad altri ambiti. Huizinga nacque in una famiglia di religione anabattista e studiò al liceo di Groninga, poi all’Università di Lipsia ed infine nuovamente a Groninga, dove si laureò in Letteratura Sanscrita. Dal 1897 insegnò Storia in un liceo di Haarlem, nell’Olanda settentrionale, dal 1903 Letteratura Indiana all’Università di Amsterdam e dal 1915 al 1942 Storia Moderna all’Università di Leiden. Fu Rettore della stessa nel 1932 e ’33. 

Prima edizione italiana, Firenze, Sansoni, 1940

La carriera di Huizinga, come studioso e scrittore, fu incentrata prevalentemente sulla storia del suo Paese ed area culturale; approfondì gli elementi estetici presenti nella storiografia e la condizione umana nei periodi di transizione ed i legami tra la cultura, l’etica, la morale medioevale e quella del Quattrocento. Tutte queste tematiche vennero raccolte nel ricordato  Autunno del Medioevo assieme ad altri importanti saggi sul XV, XVI e XVII secolo, divenuti col tempo dei veri e propri classici. Tra le opere successive, Huizinga scrisse una biografia di Erasmo da Rotterdam (1924). Dal libro Esplorazioni nella storia della cultura (1929), volse la sua attenzione prevalentemente all’instaurazione delle dittature europee, focalizzandosi sulle tendenze storiografiche a lui contemporanee, quali la ricerca e l’esaltazione dei miti, oppure sulla modifica del senso etico a causa dell’ascesa dei nazionalismi. 

Homo Ludens è, viceversa, un’opera di Huizinga, pubblicata nel 1938, in cui si esamina il gioco come fondamento di ogni cultura dell’organizzazione sociale, e si evidenzia il fatto che anche gli animali giocano, quindi il gioco rappresenta un fattore preculturale. Il testo influenzerà, a vent’anni dalla sua uscita, diversi movimenti, tra i quali il situazionismo. In Homo Ludens, l’autore individua nel grande gioco della cavalleria la forma di espressione più alta della cultura medievale: “Tutto ciò che ora vediamo come un giuoco nobile e bello, una volta è stato un giuoco sacro”. E conduce una critica spietata all’età moderna: mentre nell’antichità il gioco si fissa come elemento di formazione intellettuale, la ludicità dei moderni scade nel puerilismo; riti e miti, allontandosi dal simbolo, rappresentano solo il momento ideologico di un sapere che smarrisce ancoraggi solidi, s’immerge “nelle ombre del domani”.

Studioso del passato, Huizinga considera l’esperienza del XX secolo come quella dell’assurdo e degli errori, dell’irrazionalità del pensiero e della politica. Le uniche vere realizzazioni sono, per lui, quelle tecniche. Egli, nonostante i periodi oscuri degli anni ’30 e ’40, rimase rigorosamente fedele ai criteri ed ai valori della filosofia e della storiografia razionaliste. Correnti, queste, che allora venivano messe a dura prova dagli attacchi del positivismo e della sociologia, nonché di tutte quelle correnti che, negando qualsiasi valore scientifico allo storicismo,  preludevano alla nascita di ideologie totalitarie. Le dure filippiche contro la scienza storica, lanciate da Husserl, Valéry, Peguy, Marcel, indussero Huizinga a compiere un’analisi della sua epoca ne La crisi della civiltà (1935), nel quale le cause della crisi vengono attribuite non al razionalismo – come postulavano molti ideologi occidentali coevi – bensì all’irrazionalismo: lo stesso irrazionalismo che in politica e nelle relazioni internazionali aumentò costantemente la minaccia della guerra. Ivi lo storico olandese scriverà che “nei secoli XV e XVI l’umanesimo presentò al mondo i recuperati tesori di un’antichità purificata, come esempi permanenti di sapere e di cultura, per costruirci su”.

Erede della tradizione di Ugo Grozio, padre del giusnaturalismo moderno, Huizinga sottopose a critica aspra le concezioni del diritto internazionale e dello Stato di Hans Freyer e di Carl Schmitt, denunciando la natura pseudoscientifica delle dottrine giuspolitiche totalitarie. Il XX secolo, affermò Huizinga “ha fatto della storia uno strumento di falsificazione al livello di politica statale”. Denunciò con vigore i prodotti dell’imperialismo, il razzismo, il nazionalismo esasperato, il fascismo ed il militarismo, non salvando lo stalinismo. Con i tratti del “libero conservatore”  Huizinga seppe rimanere coraggiosamente fedele ai suoi princìpi umanistici e di difesa della libertà di ricerca. Scoppiata la Guerra, i tedeschi occupanti lo deportarono, già anziano, in un lager per ostaggi; più tardi lo trasferirono in un piccolo villaggio, a De Steeg, nei pressi di Arnhem, ov’egli morì il 1º febbraio 1945, poco prima della fine del conflitto. Proprio nel lager egli scrisse due opere: Lo scempio del mondo e La civiltà olandese del Seicento, continuando a sondare la stretta correlazione fra ‘cultura’ e  ‘civiltà umana’.

Ha scritto Piero Fabretti:

‘Ora, se riguardo allo Huizinga storico la critica è unanime nel considerarlo “il Burckhardt del XX secolo”, riguardo invece allo Huizinga ideologo i pareri sono molto discordi, anche in ragione del fatto che Huizinga è sempre stato allergico a formule categoriche. Al punto che è impossibile far rientrare i suoi lavori all’interno di una precisa corrente storiografica occidentale. Alcuni lo considerano appartenente alla logora storia evenemenziale, individualizzante; altri lo accusano di antistoricismo e di “degrado sociologico”. L’idealismo di Huizinga su molte questioni essenziali relative all’interpretazione delle leggi dei processi storici, lo avvicina alla storiografia individualizzante e soprattutto alla scuola tedesca di Baden. Nel conflitto che ha visto opposti, a partire dalla fine dell’Ottocento, lo storicismo della scuola di Ranke e il positivismo, la storia e la sociologia, Huizinga non ha certo parteggiato per i secondi. Tuttavia, la sua attività va al di là di questo quadro schematico. Basta infatti osservare come egli esamina le epoche di crisi, quelle che in un certo senso più lo affascinano; vi sono senza dubbio nella sua analisi elementi propri alla tradizione dello storicismo idealista.  Ciononostante, Huizinga ha inaugurato un modo nuovo di concepire la storia. Nel suo Autunno del Medioevo i grandi tratti espressivi della cultura dell’epoca vengono delineati nel corso di un’analisi della vita quotidiana della società, un’analisi assai minuziosa e fedele alla cronaca del tempo, che ha per oggetto tutto quanto precede le manifestazioni dell’arte: i costumi, le istituzioni etiche e giuridiche, gli ideali sociali, la dottrina religiosa e le teorie dei mistici, il quadro sociale dei vari ordini (specie della popolazione urbana) e le funzioni della produzione artistica. L’attenzione dello storico è centrata meno sulle azioni politiche propriamente dette e più sulla coscienza collettiva, cioè sulla correlazione fra la vita della società e la scala di valori da essa accettati. I problemi della coscienza sociale vengono esaminati nel quadro d’un lavoro globale di tipologizzazione della cultura storica. Huizinga non appartiene, in questo senso, alla storia psicologizzante. Qui si può ricordare che un po’ più tardi una strada analoga verrà percorsa dal grande riformatore della storiografia occidentale, Marc Bloch, che nei suoi studi sul Medioevo farà appello alla psicologia sociale’. 

Huizinga considera la cultura come un sistema nel quale tutti gli elementi interagiscono tra loro: economia, politica, diritto, usi, costumi, arte. Non solo, ma la storia diventa presto una storia universale, anche quando si tratta di fenomeni locali. Idee e mentalità infatti si diffondono.

‘La concezione secondo cui per comprendere il significato di ogni moderno fenomeno storico bisogna conoscere tutte le culture precedenti, lo obbliga a lavorare su periodi di grande durata, e questo lo stimola a progettare strutture su vasta scala. La più globale di queste è senz’altro Homo Ludens: un’enorme costruzione dì antropologia culturale fondata sull’etnografia, la psicologia storica, la sociologia, la linguistica, lo studio del folklore ecc., ovvero un’analisi globale del ruolo dei miti e dell’immaginazione nella civiltà mondiale, del gioco come principio universale del divenire della cultura umana. Non a caso il nome di Huizinga è stato accostato a quello di Mauss e di Lévi-Strauss; anche il padre dell’antropologia culturale, Tylor, deve aver esercitato su di lui un profondo influsso. Huizinga ha anticipato di molto il metodo di ricerca interdisciplinare, lo studio dei processi, dei rapporti e delle strutture sociostoriche, nonché l’orientamento non eurocentrico. Tuttavia, se Huizinga è vicino alle “Annales” per quanto riguarda i nuovi concetti di tipologizzazione e generalizzazione, e anche per l’analisi sistemica e strutturale ecc., sul piano della storia delle culture egli si avvicina all’idea dell’analisi morfologica delle entità storico-culturali, elaborata da Spengler; mentre in relazione al metodo lo stesso Huizinga s’è sempre pronunciato a favore della tradizionale storiografia événementielle della scuola tedesca. Egli fu rigorosamente fedele al “mestiere di storico”, quale lo concepivano Michelet e von Ranke’.

La storia, per Huizinga, è una scienza sociale scrupolosa e disciplinata, non letteratura, secondo Fabretti:

‘Egli prende anche le distanze dalla sociologia, poiché mentre quest’ultima considera i fenomeni sociali come meri paradigmi, la storia della cultura – questa la sua opinione – non cerca di dedurre da tali fenomeni delle regole generali per la conoscenza della società. Sotto accusa sono anche i metodi strutturalisti, ritenuti troppo schematici e arbitrari, poco rispettosi del lato concreto, empirico, della cultura storica. Lo strutturalismo non è in grado di cogliere – secondo lo storico olandese – la dinamica della storia, il lato drammatico o epico delle forme e dei modi dell’esistenza umana. Anche la diffusione dei metodi di ricerca quantitativi, fondati sulla matematizzazione del metodo della conoscenza storica, viene respinta, in quanto essa tende a spersonalizzare gli avvenimenti e le azioni degli uomini. La storia diviene cioè informe, perde la sua dinamica, il suo processo e tutto è ridotto a singoli atti. Il lato epico drammatico della storia sembra che venga percepito oggi – sostiene Huizinga – solo dalle arti plastiche’.

(Cfr. Piero Fabretti, Nietzsche, Pirandello, Huizinga. Dimensione ludica e umorismo tragico, Gangemi, Roma, 1990).

Parecchi anni dopo l’Opus magnum di Huizinga, Jacques Le Goff, eminente rappresentante della terza generazione delle “Annales”,  torna sul problema essenziale prospettato dall’olandese, con vari saggi (tra i quali, nel 1957 Gli intellettuali del Medioevo, nel 1967 Il basso Medioevo, nel 1964 La civiltà dell’Occidente medioevale, nel 1976 Mercanti e banchieri del Medioevo, nel 1977 Tempo della Chiesa e tempo del mercante), ma con accenti diversi. Un mondo nuovo sembra per Le Goff uscire dalla crisi del Trecento. Tuttavia, sotto una pelle nuova, la Cristianità, corpo ed anima, stupisce per le sue persistenze. L’autunno dell’Età di Mezzo, tale quale l’ha visto Huizinga, sembra in quest’epoca esasperarsi, è pieno di furore, di sangue, di lacrime. Anche Le Goff sottolinea il legame intercorrente fra Trecento e Medioevo, ma proietta questa riflessione all’interno di una più vasta continuità di movimenti di lungo periodo, per i quali, se il Trecento appartiene al Medio Evo, è anche vero che esso racchiude in sé dinamiche e sviluppi destinati a dar frutto nel pieno Cinquecento. Il Medio Evo trecentesco appare come inasprito, ancor più crudele, dominato da passioni e partigianerie faziose, soprattutto in Italia, ove alla debolezza del potere imperiale si aggiunge ora la latitanza del Papato, sottomesso al potere del Re di Francia nella Corte e cattività avignonese. 

Le ragioni per riannodare il Trecento sia all’età medioevale, sia a quella moderna, non si limitano all’ambito politico. È anche il caso delle arti figurative. La rivoluzione pittorica che innesca Giotto è destinata a trovar compimento in Masaccio, in Botticelli, e nel compiuto  Rinascimento di Michelangelo, Leonardo, Raffaello. Lo stesso discorso vale per l’architettura, giacché in Francia lo stile gotico dapprima evolve in gothique flamboyant e poi anticipa il Barocco italiano. Ancora, è dato osservare qualcosa di analogo perfino nella devozione religiosa. Le eresie trecentesche non si limitano ad attaccare i mali e peccati della Chiesa, come spesse volte in passato, ma mettono in discussione gli aspetti strutturali (la gerarchia, il rapporto fra la sovranità del Pontefice e quella del Concilio) e dogmatici dell’istituzione ecclesiastica. 

Il sontuoso affresco della società borgognona nella vivida profondità del suo cielo serale, offerto da Huizinga alle genti studiose d’Europa all’indomani della catastrofe della Grande Guerra, diventa precocemente, oltre critiche e riserve, una delle più elevate espressioni del pensiero storico, un classico. Alla prima edizione dell’Autunno del 1919 fa seguito una seconda, rielaborata e corretta, nel ’21, quindi una terza olandese nel ’28, che riprende alcune varianti introdotte dalla seconda edizione tedesca dello stesso anno. La prima tedesca aveva visto la luce a Monaco nel 1924, così come quella inglese. La traduzione francese debuttò nel 1932, addirittura dopo quella spagnola del 1930. Finalmente, nel 1940, fu la volta della traduzione italiana, di Bernardo Jasink, per i tipi di Sansoni di Firenze, con Introduzione di Eugenio Garin. Tale dotta ed intensa prefazione verrà modificata nelle varie edizioni e ristampe successive dell’opera. Di Garin sarà pure l’Introduzione a La Civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt, del 1860, che aveva conosciuto la sua prima edizione in lingua italiana nel 1876, nella casa fondata solo tre anni prima da Giulio Cesare Sansoni sulle rive dell’Arno e spesso poi ripubblicata.

Eugenio Garin (Rieti, 1909 – Firenze, 2004) si laureò a soli 21 anni all’Università di Firenze con il filosofo positivista Ludovico Limentani. Nel 1949 diverrà Professore Ordinario nello stesso Ateneo. Disgustato dagli eccessi del ’68 ‘emigrò’ all’Università di Pisa. Fu uno dei più autorevoli storici della filosofia e della civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento. Nel 1944 Garin, iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 1931, aveva pronunciato al Lyceum di Firenze una commemorazione in morte del Presidente dell’Accademia d’Italia, Giovanni Gentile, assassinato ad aprile di quell’anno dai GAP. Che ebbe, comunque, una morte socratica ed una solenne sepoltura in Santa Croce. Dove riposa tuttora anche se, di tanto in tanto, qualche starnazzante oca comunista ne chiede l’espulsione… Garin fu un formidabile e fine studioso, attivo fino ad un’età molto avanzata. I suoi interessi furono essenzialmente rivolti al pensiero dell’umanesimo e del Rinascimento. Dal Dopoguerra egli fu un operatore culturale privilegiato del PCI di Togliatti e successori, seguendo le orme di molti altri intellettuali.

Il Trionfo della Morte di Jan Brueghel il Vecchio (Graz)

L’opera di Johan Huizinga ha avuto, da allora, molte edizioni in italiano, da editori diversi. L’ultima integrale in lingua italiana credo sia quella di Paperback, del 2017, con un’introduzione di Ludovico Gatto, nella traduzione di Franco Paris.

Felice anniversario, cento e cento di altri anni, Autunno del Medio Evo…! 

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Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

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