Cultura (di P. Isotta). Dal comico alla tragedia, l’inganno degli dèi e la fondazione della civiltà

Nel mio ultimo articolo ho narrato di una tentata truffa, ormai frequentissima, facile e ignobile: un pirata informatico entra nella posta elettronica di Marco Travaglio e mia e, fingendosi noi all’estero e in difficoltà, chiede soldi. Ho poi parlato della vera truffa, quella che implica un rischio da parte di chi l’esercita e, in quanto tale e se ben concepita, è un’arte.

Ho citato l’immortale Totò truffa. Un altro, meno noto, film del Sommo, Sua Eccellenza si fermò a mangiare, racconta di un raggiro: lungo e paziente, questo. Totò, sotto il fascismo, si finge il medico del Duce, colui che durante la Grande Guerra l’ha guarito dal tifo petecchiale e che con Lui si sente almeno una volta al giorno, visitandolo anche per telefono (“Eccellenza, dite trentatrè!”). Così riesce a farsi affidare da una nobile famiglia che la detiene dal Rinascimento un servizio di posate cesellato da Cellini: per portarlo in prestito a Palazzo Venezia … Uno degli strumenti dell’inganno è la capacità di assumere una falsa identità, o di attribuire a se stessi un falso carattere. E vorrei in un paio di scritti raccontarne un po’ di casi.

Il teatro comico sin dalle origini ne fa uno dei suoi principali mezzi. Nell’Anfitrione di Plauto Mercurio assume l’aspetto di Sosia, il servo di Anfitrione, mentre Giove, prese le sembianze di costui, si giace con la moglie Alcmena: e quando il vero Sosia vuol entrare in casa, il dio, in uno dei più strepitosi testi comici mai composti, lo convince di essere egli l’autentico Sosia, lasciando il servo privo della stessa sua identità. Ruggero Guarini indica in questo dialogo surrealista, pieno di equivoci verbali, una delle radici di Totò. Uno dei più grandi eredi di Plauto e di Terenzio è Molière: nel Tartufo egli inventa un libertino, avido di denaro e sfruttatore di una famiglia, il quale si fa credere un così perfetto devoto da portare tale famiglia, da lui dominata, a una comicissima, estrema bigotteria. Se sosia è diventato il sinonimo di colui che assomiglia tanto a uno altro da poterlo contraffare, tartufo è quello dell’ipocrita e del falso credente. Potenza del genio.

 Ma anche il teatro tragico può basarsi sulla falsa identità. Il caso atroce dell’Edipo tiranno di Sofocle è che Edipo finge di essere il figlio di Polibo, re di Corinto, e non di Laio, il re di Tebe: ma è il primo a crederlo, onde uccide di notte il padre a un crocicchio e sposa la madre Giocasta. Gli dei hanno teso a un innocente questo crudelissimo inganno: il sommo Poeta si interroga, ben prima di Agostino (“Se Dio è, donde nasce il Male?”), sul tema se la divina giustizia esista. Occorrerà giungere alla purificazione della Tragedia che completa questa, Edipo a Colono, per accettare l’idea che gli dei sono giusti e che la loro giustizia è imperscrutabile. Edipo può finalmente morire, e muore placato. Chi sa se, oltre a placarsi il Re, si placa davvero Sofocle. E dopo, nell’Antigone, il sublime poeta affronta un altro tema capitale: può una Giustizia nascente dalla natura e dalla pietà (ossia: dal rispettare la volontà degli dei, ché questo pietas significa) esser superiore alla legge dello Stato? La risposta è affermativa. Antigone ha accompagnato il padre Edipo, accecatosi per l’orrore, nell’esilio, e muore per aver seppellito il fratello ucciso dall’altro fratello, in spregio al di lui divieto. L’incomprensibilità divina si manifesta a partire dallo strumento della falsa identità; dall’una e dall’altra Tragedia nascono alcuni dei principali imperativi etici e metafisici del cristianesimo.

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*Da Il Fatto Quotidiano del 1.3.2019

Paolo Isotta*

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