Pare che il cuore non invecchi: peccato che invecchi il resto, obiettano i pessimisti. Eppure, sarà un po’ il complesso di Peter Pan che molti vecchietti si portano addosso, sarà la sensazione di un discorso rimasto sospeso, di qualcosa che più che essere fallita è stata tradita e abbandonata: ma quando penso all’Europa mi pare che, per quanto mi riguarda, il tempo si sia fermato. E mi ritrovo ancora al 1965, in quella stanzetta del centro vecchio di Firenze dove una decina di noi, pagandosi mese dietro mese per autotassazione l’affitto “di tasca nostra”, discuteva di Russia e di America, di Nasser e di Fidel Castro, di “terza forza” e di “non-allineamento”. Venivamo compatti da un partito, il Movimento Sociale Italiano, che avevamo abbandonato, anche perché si caratterizzava per una curiosa schizofrenia: al di là del diffuso e seminnocuo nostalgismo neofascista che per alcuni era una caccia calda e per altri una riserva di voti, esso parlava alla base e per la base un linguaggio ispirato a un radicalismo sociale che sarebbe sembrato forse massimalista allo stesso Bordiga mentre ai vertici (ch’erano quelli ai quali si erano accomodati, se non su poltrone quanto meno su poltroncine e strapuntini, i nostri deputati, i dirigenti locali, gli intrufolati nei vari sottogoverni, i faccendieri politici eccetera) si restava fedeli a un atlantismo opaco, ostinato, che al momento buono, nei corridoi del parlamento, si traduceva in voti d’appoggio (abbastanza ben retribuiti in vario modo sottobanco) a quel potere costituito – leggi DC e suoi alleati e compagni di strada, NATO ecc. – che, pure, ufficialmente, ci faceva sputare addosso dai suoi media (ma allora non si chiamavano così) e manganellare dalla sua polizia. Quanto alla – chiamiamola così – “ideologia” di partito, ci si fermava a un nazionalismo miope e greve: roba da “Maestrine della Penna Rossa” di de Amicis, che avrebbe indignato il vecchio Corradini da quanto era sorpassato: non si andava al di là di Trieste italiana e dell’anticomunismo, e quando noi giovanotti ci ostinavamo a rievocare la nostra più eroica stagione, i fatti d’Ungheria del ’56, gli altri rimanevano tiepidi; la vantata “socialità”, al di là delle roboanti dichiarazioni comiziesche o congressuali, era roba per qualche nostalgico “repubblichino” e, appunto, per giovanotti di più o meno belle speranze. Le prospettive europeistiche alle quali da parte nostra allora aderivamo, lontani da quelle del Movimento Federalista e del “Manifesto di Ventotene”, erano, semmai, quelle di Pierre Drieu La Rochelle, che Paul Serant aveva disegnato nella monografia Romanticismo fascista. Ma il “nostro” partito al massimo arrivava alla diatriba (sommaria ed elementare) tra “gentiliani” ed “evoliani”, con qualche spruzzata di cattolicesimo: per il resto viveva in un altro mondo che, peraltro, era concretissimo, quello delle poltrone parlamentari e delle poltroncine amministrative da spartire confidando nel “Boia-Chi-Molla” della fedeltà elettorale di buona, povera gente…
Il caso. Il manifesto del sovranismo europeista di Franco Cardini
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- Categories: Esteri, Politica
- Tags: Barbadillofranco cardinisovranismo europeo
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