Cultura. Costruire per distruggere, Manlio Sgalambro, l’ultimo chierico: ritratto di un anti-intellettuale

Manlio Sgalambro sposava pienamente la tesi di Emil Cioran, secondo cui la sofferenza è produzione di conoscenza, nonostante sostenesse di sentirne le lamentele ogni volta che si approcciava ad una sua opera. Gli aneddoti che affiorano quando si pensa o si parla del maestro di Lentini sono molteplici. Il suo ricordo non è solo incastonato in gioielli della canzone d’autore quali La Cura, di cui è stato paroliere, contribuendo ad ampliare la produzione musicale di Franco Battiato, a partire dall’album L’Ombrello e la macchina da cucire. Il libretto curato da Rita Fulco, per le edizioni Mesogea, Manlio Sgalambro. L’ultimo chierico, riassume in maniera esaustiva il pensiero, gli umori e i tratti di una figura,un pensiero (definizione che gradirebbe in misura maggiore, da anti individualista viscerale) in grado di sovvertire in maniera istrionica l’impalcatura di un qualunque istinto o istanza intrisa di varie forme di conformismo.

“io non sono un intellettuale. Io sono un chierico (…). Intellettuale diventa colui il quale prende partito per valori estremamente politici: la società, la nazione, la patria, la guerra, la pace. Il chierico, invece, è colui che si sforza di seguire valori che siano universali (…)”

Distruggere, creare, riconsiderare. Un vortice, un flusso di lava scaraventa e invade le categorie della filosofia politica normalmente considerata come l’<<io>>, l’<<Altro>>, la <<Società>>, la <<Comunità>>. Sgalambro parte dal pensiero, o meglio, per descrivere la sua aderenza a militante della conoscenza, titolo che si affibbia senza vergogna, parte dalle cose concrete. Refrattario a qualsivoglia forma di accademismo, frequenta Giurisprudenza, non vuole cadere nel pozzo della filosofia idealista, in cui dominavano Croce e Gentile. Alla domanda se sia mai stato innamorato, sostiene affermativamente che talvolta ha ceduto a sé stesso, con la stessa calma con cui afferma di non essere un cultore dell’amicizia. Non è una fuga dalla vita, al contrario. È pensiero che propone la negazione delle categorie interpretative che immobilizzano la vita stessa in una visione astratta e consolatoria, che rendono asfittica la stessa filosofia. Nel considerare il solo pensiero come elemento unico di vitalità e di valore, Sgalambro, sembra, inconsapevolmente, affermare la presenza di una essenza contenuta all’interno, nelle viscere degli elementi che popolano la vita <<materiale>>, a suo modo riflesso di ciò che avviene nel pensiero, vero scenario di azione, scomoda, intrigante e ardita. Azzardando una provocazione, si può tranquillamente affermare che, attraverso la negazione, Sgalambro flirta con la morte, delle idee e, in linea con la tradizione induista studiata anche dallo stimato Schopenauer, dell’Io. La sofferenza per una grave febbre provata da adolescente lo ha spinto verso la tendenza ad interrogarsi sull’essenza delle cose, sulle torsioni del pensiero, per comprendere le pieghe del vivere.

Cinico, sarcastico, sfuggente alle definizioni imposte dall’esterno, le sue risposte sono dardi per coscienze troppo sicure, assumeva il ruolo di smontare la falsa coscienza senza che questa nemmeno se ne accorgesse.

Non è la vita ad infastidirlo, ma il roboante e continuo suono di un idealismo conformista che, a suo dire, sviliva l’atto stesso del pensare. Manlio Sgalambro ha attraversato l’arte in varie forme, ha espresso un pensiero che, al pari di un asteroide, ha sorvolato la vitalità delle stesse forme per immagazzinarlo in un eterno ora.

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Stefano Sacchetti

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