Cultura (di P. Isotta). “La Compagnia del Cigno” pessima come la qualità della scuola italiana

Il cigno è l’uccello sacro ad Apollo, il dio della musica. È l’emblema della sua arte, e dell’arte, insieme con il ramo di alloro, col quale si cinge le tempie, e la lira. Il figlio di Apollo, Orfeo, simbolo a sua volta della musica e dell’arte, venne dilaniato dalle Baccanti e il suo capo e la sua lira galleggiarono lungo il fiume Strimone, e le rive echeggiavano l’invocazione del nome di Euridice della frigida lingua (Virgilio) e della cetra: si narra, fra l’altro, in un capolavoro di Berlioz, La mort d’Orphée.

Quando dunque mi chiedono di guardare un film sulla vita del Conservatorio di musica di Milano, realizzato da una “Compagnia del Cigno”, l’animo mi si apre. Non mi spaventa una dura nota diffusa dal Conservatorio di Padova: redatta in buon italiano, parla di “stereotipi” e “contraffazione della realtà”. La nobile città di Antenore, di Livio e di Mantegna, ha un illustre Conservatorio, del quale fu direttore, fra gli ultimi, il grande Claudio Scimone, scomparso da pochi mesi. Mi accingo a guardare il filmetto con spirito favorevole. Resto subito deluso. In effetto, il lavoro della “Compagnia del Cigno” mi pare un sottoprodotto di Un posto al sole, ove le vicende della vita privata e dell’eros fra ragazzi e docenti occupano un posto rilevante, insieme con traumi esistenziali e difficoltà reciproca di sopportare ruoli psicologici e professionali.

Non sono qui a narrare un pezzo di autobiografia, né il quadro che sto per fare vuol essere una rivalsa rispetto alle mie esperienze. Ho insegnato in Conservatorio dal 1971 al 1994, a Torino e Napoli. Ho abbandonato la cattedra, che avrei ancora potuto tenere almeno vent’anni, per progressivi disgusto e sfiducia. Il Conservatorio è un’accademia di (ottativamente) livello superiore. Vi si formano strumentisti, compositori, teorici e insegnanti. Dovrebb’essere comune l’insegnamento della musica, la sua natura, il suo senso, il suo linguaggio, le sue forme. In ogni umana realtà vi sono diversissime nature, onde un certo numero di musicisti già così disposti e in grado di diventarlo del tutto esiste, e ce ne sono stati anche negli ultimissimi anni. Io stesso ho avuto discepoli di prim’ordine.

Ma debbo parlare del caso generale. La prima fonte del disastro è la cosiddetta scuola dell’obbligo. La classe politica italiana a partire dagli anni Sessanta, e sempre più, l’ha concepita come un “ammortizzatore sociale”. Serviva a parcheggiare i giovani in attesa di trovare un lavoro che spesso non veniva. I miei amici che oggi insegnano all’Università materie umanistiche e giuridiche mi dicono che la gran massa degli studenti non possiede una conoscenza basilare dell’italiano. Sanno scrivere solo in stampatello con le abbreviazioni usate in whatsapp e ignorano ogni regola grammaticale e sintattica. C’è, e c’era in Conservatorio, la regola, non scritta ma cogente, di promuovere tutti. La mia difficoltà fu che a un certo punto mi accorsi che gli allievi non comprendevano le mie lezioni: perché non comprendevano la lingua italiana. Non sapevano prendere appunti. Quando decisi di dettarne, mi avvidii che non sapevano scrivere sotto dettatura: all’epoca delle mie scuole elementari esisteva il dettato, abolito dalla nuova pedagogia democratica. Tentai allora di far leggere ad alta voce il libro di testo. Non erano capaci nemmeno di questo: e da come intendevano la punteggiatura, mi resi conto che non comprendevano ciò che faticosamente sillabavano.  E provate a chiedere a un cantante o un direttore d’orchestra di spiegare il significato delle parole di ciò che cantano, di ciò che dirigono: in Mozart, in Rossini, in Verdi. (Dei maestri che sul podio dirigono la musica sacra, quasi nessuno conosce il latino. E dirigono dei Requiem di Verdi che fanno paura.) Molti dei miei allievi erano studenti universitarî e laureati (non avete idea di quanti cantanti italiani oggi siano laureati, con insegnanti ignoranti come loro che non correggono nemmeno gli errori di ortografia nelle cosiddette tesi di laurea). Io insegnavo storia della musica anche per i diplomandi in composizione; quindi promossi all’esame di armonia. Ero costretto a fare un corso di armonia elementare agl’imminenti compositori. Alcuni di essi oggi insegnano musicologia e composizione in Conservatorio. Le materie oggetto di esame per il diploma in composizione sono diventate una sorta di facoltatività all’acqua di rose. La Fuga non si porta nemmeno intera, o l’Esposizione o gli Stretti …

Vengo agli strumentisti. Ho già detto che l’insegnamento è in primo luogo della musica. Essi, specie quelli d’orchestra, apprendono, quando va bene, la meccanica dello strumento, non il linguaggio che attraverso tale meccanica si esprime. Sono dei manovali, che invece di tenere in mano una cazzuola o un saldatore, impugnano un clarinetto o un violino. La musica non la capiscono e di solito non la amano. Lo si vede persino quando si chiede a un orchestrale di giudicare un cantante, un solista o un direttore d’orchestra: scelgono i peggiori, gli applaudono. Fino agli anni Sessanta in Italia esistevano poco più di dieci Conservatorî. Oggi ve n’è almeno uno per provincia. Sfornano decine di disoccupati, i quali, se riescono a trovare posto in orchestra, arrotondano andando a suonare ai battesimi, ai matrimonî, alle feste di piazza accompagnando i “neomelodici”. E i Conservatorî attribuiscono lauree honoris causa, o almeno master, a Gigi D’Alessio.

Mi pare che il solo rapporto fra la “Compagnia del Cigno” e il cigno di Apollo sia Olim lacus colueram. Siccome non saprebbero riconoscere di che si tratta, glielo dico io: è il lamento del cigno arrostito nei Carmina burana di Carl Orff.

*Da Il Fatto Quotidiano del 10.1.2019

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