Libri. “La Dotta Lira” di Isotta, il genio di Ovidio rifulge tra mito, musica e libertà

Che la nostra cultura (almeno in teoria) discenda dal mondo classico s’è già detto. Finalmente arriva un libro che lo dimostra e, per la prima volta, slaccia in musica il mito della poesia di Ovidio e, senza mai manco citarli, mette alla berlina le fisime dei potenti di ogni epoca.

Si tratta di un tema sul quale, finora, mai s’era scritto. Un genio tra i più grandi della romanità, quello di Publio Ovidio Nasone, rischiava di passar sotto traccia nell’anno in cui si dovrebbe celebrare il bimillenario dalla morte. Così non poteva essere: una mostra gli è stata dedicata alle Scuderie del Quirinale (sarà aperta dal 17 ottobre fino al 20 gennaio prossimo). E, cosa forse ancora più importante, s’è scritto (per la prima volta al mondo) un libro dedicato alla grande eredità culturale di cui a Ovidio dobbiamo essere grati.

Ha avuto il coraggio di farlo un italiano. Meglio ancora: un napoletano che di Partenope rimane tra gli ultimi figli devoti. Paolo Isotta ne “La Dotta Lira. Ovidio e la Musica” rende alla cultura (quella che non ha bisogno di salotti per consacrarsi, quella che non ha bisogno di rispondere a nessuna ortodossia ideologica) un servigio altissimo.

L’opera, appena uscita per i tipi di Marsilio, è di quelle che non dovrebbero mancare sulla scrivania di ogni uomo che ami la libertà e detesti ogni tipo di imposizione. Isotta restituisce a Ovidio la grandezza sua. Quella di un genio altissimo capace di scolpire, in versi, una delle più belle opere dedicate all’uomo e all’umanità attraverso quella che dell’uomo è la più importante conquista, percorrendo i due ponti tesi tra noi e il divino: il mito e la musica. Che poi, all’origine, sono la stessa cosa.

Lontano, è Ovidio, dalla piaggeria verso il potere e le sue esigenze: lui, ateo convinto, innamorato cultore di Lucrezio, e perciò irriducibile a ogni imposizione di restaurazione, racconta, svela, dipinge il divino come nessuno ha fatto prima e, fino ad oggi, nessuno ha fatto dopo. Lo fa facendo risuonare il richiamo antico e carnale del sistro tragico, restituendo voce e musica alla lira, dottissima, di Orfeo. La poesia di Ovidio è così grande che resiste a ogni assalto ideologicamente orientato. Chi vi s’avvicina con l’idea di farne materiale per sostenere convinzioni utili al potere, a cui piace il racconto di cose (solo) epiche, edificanti, utili ai suoi scopi, ne rimane letteralmente pietrificato.

Lontano è Isotta da ogni scorciatoia ideologica: indovina, perciò, l’unica strada utile a raccontare il genio di Sulmona e la sua profondissima e divina ispirazione. Percorre le strade della musica e della poesia, dal Rinascimento a Strauss e d’Annunzio; ne traccia un trattato di mitologia autentico percorrendo le opere che da quella ovidiana si sono succedute nei teatri europei, dal ‘400 in poi.

Svela, il suo lavoro, le radici profonde di un mondo al quale (indegnamente) facciamo risalire le nostre origini. Musica è godimento e questo, come l’Amore si conquista, si subisce, si impone, sempre ci trasforma, ci induce alla Metamorfosi per quanto fugace o durevole. Spesso a noi si nega, si tiene a distanza: il piacere, qui, è restituito all’autentico senso classico, epicureo. Non la crapula, non il vizio ma l’atarassia, l’assenza di turbamento. Per dirla con Totò, gli attimi di dimenticanza che rappresentano l’autentica essenza della felicità.

La vita degli uomini, degli dei, delle ninfe e dei satiri è quanto di più lontano da ciò abbia teorizzato, per basse ragioni di consenso politico, il sistema attuale che, pure, cerca di accreditare una sua origine dal retaggio classico. Dunque, quale diritto alla felicità si può legittimamente postulare sulla base della cultura grecoromana se persino il solare Apollo non può che cadere affranto quando Dafne, tragicamente, si sottrae al suo amore? Eppure quello stesso dolore, aborrito e abbrutito nella concezione contemporanea non fu, ai tempi del mito, infecondo. Il dio, tratto un rametto dall’alloro in cui ella fu mutata, se ne ornò le tempie. Nacque in quel momento l’arte.

Ovidio e con lui la grande poesia è scomodo al potere. Se ne accorse anche un gigante quale fu Ottaviano Augusto che, per restituire a Roma la salute pubblica messa duramente alla frusta dalle guerre civili che s’erano andate succedendo, decise di impugnare l’instrumentum regni della restaurazione dei costumi. La sua mossa fu geniale: per imporre l’impero e completare quello che ebbero a iniziare Silla (giusta la lezione di Jerome Carcopino) e Cesare, si fece restauratore della Repubblica. Il rinnovato rigore del mos maiorum fu l’architrave dell’intera struttura allestita dal genio politico di Augusto e che, poi, avrebbe retto Roma per i prossimi secoli. Non ci poteva essere nessuno spazio, perciò, per dottrine e filosofie lontane dalla semplice frugalità idealizzata dei quiriti d’un tempo.

Furono dunque le Metamorfosi, e Isotta lo afferma nell’Avvertenza, che costarono a Ovidio la relegazione nella gelida Dacia. La poesia e il mito del Sulmonese rappresentano una visione del mondo così alta, così aristocratica, così ispirata da Lucrezio e perciò dalla scienza di Epicuro, da farsi immediato pericolo per il potere. Ieri come oggi.

Ci voleva perciò lo sguardo di un napoletano, per cultura e per indole ribelle alla dittatura della partigianeria ideologicamente corretta, per restituirci in tutto il suo splendore un genio immortale, classico e inattuale perché irriducibile a ogni classificazione.

*La Dotta Lira. Ovidio e la Musica, Paolo Isotta. Marsilio. 426 pagg, 22 euro.  

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Giovanni Vasso

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