Caso Kavanugh. Se un giudice Usa finisce alla sbarra. Il linciaggio del maschio occidentale

Brett Kavanaugh

Quando, e se, Brett Kavanugh, il giudice designato dal Presidente Trump per occupare il seggio vacante della Corte Suprema USA, verrà nominato dal Senato, stapperò una bottiglia di spumante.

Non è la prima volta che la nomina di un giudice alla Corte Suprema si trova ad affrontare ostacoli: la ragione è da ricercarsi nel ruolo determinante di tale carica giudiziaria nella vita politica americana, e nella polarizzazione sociale in atto negli USA. Robert H. Bork, nominato dal Presidente Reagan nel 1987, fu affondato da un discorso al vetriolo del senatore Ted Kennedy sulla presunta “Bork’s America”, il paradiso dei reazionari. Il giudizio sul trattamento riservato a Bork è unanime tra gli specialisti di diritto americano: un errore, un errore che è andato a costituire la radice dell’eterno scontro sulle nomine giudiziarie. Clarence Thomas già nel 1991 dovette affrontare accuse di sexual harrasment, poi rivelatisi false, nel corso di quello che lui, un uomo di colore della Georgia, non progressista, non stentò a definire un “high-tech lynching”. Nel 2016 i Repubblicani ottennero la rivincita per Bork, per Thomas, per le nomine alle corti inferiori bloccate nel corso della seconda presidenza Bush dai Democratici, impedendo al Presidente Obama, forti della maggioranza al Congresso, anche solo di presentare il giudice Garland, designato per la sostituzione del corifeo della restaurazione giudiziaria, Antonin Scalia. Epperò lo scontro non aveva mai raggiunto proporzioni tali.

Il giudice Robert Bork (1987)

Kavanaugh nelle ultime settimane è stato accusato di essere un wanna-be rapist. Avrebbe tentato di violentare, in preda all’ubriachezza, nel corso di una notte d’estate del 1982, una ragazzina di quindici anni. Lui, all’epoca, ne avrebbe avuti diciassette. Le accuse, rivolte da parte della dottoressa Christine Blasey Ford, di Palo Alto, California, erano note ai membri democratici della commissione giudiziaria del Senato, da almeno due mesi. Due mesi nei quali nulla è stato rivelato al pubblico. Nulla è stato chiesto al giudice Kavanaugh nel corso delle 20 ore complessive di hearings tra il 4 e il 6 settembre. Nessuna indagine federale è stata richiesta da quei campioni della democrazia e dello stato di diritto che oggi si stracciano le vesti. Solo dopo che il tentativo di annichilire il nominato, investigando le sue idee politiche e le dottrine giuridiche da lui adottate secondo il collaudato metodo del borking, è andato a vuoto, i Democratici hanno deciso di offrire pubblicità alle accuse.

Nessuna prova di esse. Nessuno di quegli elementi che, di regola, costituiscono le legittime basi per un giusto processo di legge. Solo la parola della dottoressa Ford contro quella del giudice Kavanaugh. La parola di una timida donna di cinquant’anni, visibilmente sofferente, e progressista, contro quella di un maschio bianco conservatore. Che pacchia per i media! Il giudice nominato dal più disprezzato Presidente repubblicano degli ultimi cent’anni, è un viscido, un pervertito dedito all’alcol! E come avrebbe potuto essere diversamente? Forse che un giurista pro-life non deve essere necessariamente irrispettoso della dignità femminile, del corpo di una donna? Non è forse il prodotto di un’educazione elitaria e cattolica, e, perciò, indubbiamente un maschilista? E così per giorni e giorni il New York Times, il Washington Post, Slate, Time, Esquire, The Boston Globe, hanno cavalcato l’onda del #metoo, senza requie e, talvolta, in termini tali da rasentare la calunnia.

In alcun modo, d’altra parte, si potrà dubitare dell’onestà della dottoressa Ford: ella merita il rispetto che deve essere necessariamente accordato a chi è stato vittima di una violenza, di qualsiasi natura. Né si potrà ritenere corretto svolgere congetture su possibili errori di persona, complotti dietro le quinte. La Commissione giudiziaria del Senato ha disposto che il giudice debba essere votato dal Senato tutto nel corso della prossima settimana, previa un’investigazione dell’FBI. Sarà dunque quest’ultimo ad accertare l’eventuale effettività dei fatti narrati dalla Ford. Se egli sarà ritenuto colpevole, meriterà non solo di perdere la nomination alla Corte Suprema, ma anche di essere privato della propria carica di giudice federale e di essere sottoposto ad un procedimento penale secondo le leggi in vigore nel Maryland, che non vedono termini di prescrizione in materia.

La giornata di giovedì 27 settembre ha visto le testimonianze della dottoressa Ford e del giudice Kavanaugh dinnanzi ai membri della commissione giudiziaria del Senato. La dottoressa Ford si è espressa in termini compassati e tali da suscitare indubbiamente empatia e commozione. Le telecamere hanno inquadrato per circa sei ore una persona ferita, sofferente. Coraggiosa, oserei dire, tanto da provocare la simpatia anche dei senatori repubblicani e un attestato di stima persino dalla Casa Bianca. Tuttavia, la testimonianza di Brett Kavanaugh non è stata meno toccante.

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Si ha avuto occasione di ascoltare un uomo la cui vita e quella della propria famiglia, sono state definitivamente segnate, il cui buon nome, costruito in trent’anni di onorato servizio, è stato gettato nel fango e indelebilmente macchiato. Un uomo che sta tentando il tutto per tutto. Kavanaugh ha dato lettura al proprio statement per ben quarantacinque minuti, con la voce rotta, dovendosi talvolta interrompere per reprimere le lacrime. Ha affermato il proprio rispetto e il sostegno proprio e della propria famiglia per la sua accusatrice – “una delle mie bambine ha affermato che bisogna pregare per questa donna”, ha detto, quasi piangendo. Ha sottolineato la totale assenza di prove – normalmente è su delle prove che si fonda un procedimento giudiziario in uno stato di diritto. Del resto, come non giudicare un uomo di 53 anni, che negli ultimi decenni si è costruito la reputazione di giurista onesto ed equilibrato, rispettato nel mondo accademico – segnatamente: durante sue hearings è intervenuto, fornendo un parere tutt’altro che negativo, Akhil Amar, uno dei più rispettati docenti di legge degli USA e non certo un conservatore –, ammirato da chiunque lo abbia conosciuto e pronto a favorire le pari opportunità – si ricorderà che Kavanaugh è il giudice federale che ha assunto più law clerk donna, tra le altre cose – per ciò che, stando a testimonianze confuse e prive di riferimenti calzanti dal punto di vista cronologico e spaziale, avrebbe tentato di compiere trentacinque anni prima, minorenne e ubriaco? Qualcuno ha affermato che il giudice si sarebbe rivelato irrispettoso, se non aggressivo, nelle risposte fornite ai senatori. Sfiderei chiunque venga accusato di fronte all’intero paese e alla propria famiglia, senza una prova, al culmine di una carriera di duro lavoro, di essere un ubriacone, un laido, un gang-rapist, a non perdere le staffe.

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Kavanaugh, nel suo statement, e il senatore Lindsey Graham della South Carolina, un repubblicano moderato, nel suo intervento, hanno centrato il punto focale della questione. Sul banco degli imputati, non c’è solo Brett Kavanaugh. V’è molto di più.

Donne abbigliate alla maniera di “The Handmaid tale” protestano contro la nomina di Kavanaugh

Si tratta di uno scontro di civiltà. Un doppio scontro di civiltà. Quello tra la civiltà del diritto – liberale nell’accezione più nobile del termine – con tutte le sue procedure, le sue formalità sostanziali, le sue tradizioni forgiate nei secoli e basate sulla oggettività della prova, e quella del sentimentalismo soggettivista, della volontà individuale, del sentire individuale che diventa legge. Del #lovewins, insomma. E poi quello, non meno radicale, tra due visioni opposte dell’America e della società. Uno scontro non richiesto, ma imposto dalla radicalizzazione della politica, non solo negli USA, ma nell’Occidente tutto. Da un lato l’esponente, privilegiato, di un’etica conservatrice e cristiana – nella fattispecie cattolica, quella che oggi è più diffusa tra gli strati inferiori della popolazione statunitense; dall’altro gli alfieri del progressismo, del femminismo, del liberalismo più radicale, tendenza che sembra fare oggi da padrona tra i millenials e i better-educated. Il mostro Kavanaugh e il San Giorgio Cory Booker, insomma. Che il giudice fosse un mostro, fosse un nemico da distruggersi ad ogni costo, i liberal lo hanno avuto ben chiaro da subito. Si ricorderà l’inquietante comunicato di parte del corpo studenti dell’Università di Yale, l’alma mater dello stesso Kavanaugh: “la sua nomina porterà molte vite ad essere spezzate”. Alcuni senatori democratici non si sono posti problemi a definirlo, letteralmente, “evil” e “complici nel male” i suoi sostenitori. Ad aggravare tutto ciò, le stellari credenziali accademiche e la fama personale di un uomo che difficilmente si potrebbe derubricare alla categoria del bigotto ignorante. Perciò egli deve essere distrutto. Egli è il nemico: non importa che si avvii un’inchiesta basata sulla fiducia. Non importa ciò che un uomo ha dimostrato nel corso della propria vita da adulto. La sua sconfitta rappresenterebbe la stessa di quella parte di America che, nel novembre 2016, ha tradito i miti del progressismo.

Lo scontro ha raggiunto nuovi livelli di radicalizzazione, probabilmente tali da trasformare quello che sarebbe stato un giudice moderatamente conservatore in un falco, una volta nominato; tali da dividere ulteriormente la già complessa società americana. Non sono poche le testimonianze di elettori moderati o indipendenti che, dopo un tale affronto allo stato di diritto, hanno dichiarato la loro prossima affiliazione ai repubblicani.

La copertina della rivista Time nel 1991, all’epoca della controversia che vide contrapposti il giudice Clarence Thomas e Anita Hill

Tutto ciò ricorda terribilmente la fama di un film datato 1990, regia di Brian De Palma, da un soggetto di Tom Wolfe. The Bonfire of the Vanities comparve nelle sale cinematografiche degli USA nell’estate del 1990. Nonostante un cast di tutto rispetto – Tom Hanks, Morgan Freeman, Bruce Willis, tra gli altri – e la fama dell’allora rampante De Palma, risultò essere un flop, tanto dal punto di vista commerciale che da quello critico. Difficilmente la critica cinematografica di quegli anni avrebbe potuto apprezzare un film che non si limitava a porre a nudo il materialismo, l’ipocrisia, la bassezza morale della upper class newyorkese, ma gettava una luce fosca sui miti dell’America liberal. Tom Hanks, alias Sherman McCoy è infatti un brooker di Wall Street, uno dei “padroni dell’universo”. Commetterà un errore, e ne pagherà le conseguenze, scelto quale vittima sacrificale da un procuratore roso dal veleno dell’ambizione politica: si necessitava di una vittima per placare lo scontento sociale dei diseredati, delle vittime, delle minoranze. Chi meglio di un privilegiato maschio bianco, peraltro fedifrago e legato alla finanza? Un’accusa retta sulla menzogna, sul calcolo politico, sull’ipocrisia, su infamanti accuse di razzismo che finiranno per intaccare persino la rispettabilità di un giudice nero, chiamato a decidere sul processo. Sarà proprio il giudice, interpretato da Morgan Freeman – quasi una controfigura del futuro giudice Clarence Thomas – a smascherare l’arrivismo dei procuratori e i miti di una presunta giustizia sociale, pronta a travalicare la legge e il buon senso, la decenza più elementare, per affermarsi.

Oggi però non assistiamo a un film, ma alla storia. Non vi è più un giovane Tom Hanks nei panni di Sherman McCoy, ma Brett Kavanaugh nei panni di sé stesso. È per questo che, qualora cada ogni accusa e il giudice Kavanaugh venga confermato, non esiterò a brindare.

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Paolo Maldini

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