Accadono strane cose agli sbadati, come ad esempio quella di acquistare libri doppi, avvedendone solo a cose fatte. Lì per lì, tra gli scaffali di una libreria, sembra venir meno la lucidità necessaria alla scelta. Capita, in quei casi, una sorta di cleptomania isterica, una rapacità immemore, propensa all’accumulo compulsivo. Horror vacui. “Che faccio, lascio quel Pound inedito? ma sarà poi tale?”. Rammenta bene, scialacquatore: Hai due Meridiani Mondadori, i Canti postumi, i radio-discorsi, vari gingilli Scheiwiller, raccolte fotografiche, volumi e volumetti a corredo. Che altro? ad esempio le due copie – apparentemente identiche – di Ezra Pound e il canto dei sette laghi, cofanetto edito da Diabasis (2004), promettente feticismi orientali, mappe bucoliche di ideogrammi perduti e viaggi nella culla del sole. Estrapolato dalla fine della quinta decade (detta senese o leopoldina) dell’Opera, il Canto XLIX, noto per l’appunto come “Seven Lakes”, diventa in quelle pagine oggetto di scrupolose analisi filologiche da parte della curatrice Maria Costanza Ferrero De Luca. Introduzione di Massimo Bacigalupo, conclusione di Adriano Vantaggi, in allegato la riproduzione del takagami secentesco, appartenuto al poeta, fonte iconografica del Canto in questione.
Siamo nei primi anni ’30, mentre il Regime fascista celebra un plebiscitario consenso su tutti i fronti, Ezra Pound l’americano risiede a Rapallo, lontano dai luoghi del potere e tuttavia entusiasta delle politiche mussoliniane: apprezza quell’ordine tipico delle api operose, equilibrio tra lavoro fondativo e natura (le bonifiche, le architetture), nelle arti le suggestioni neoclassiciste (il 900) dopo i capricci futuristi; insomma un’idea gerarchica, corroborata da suggestioni risalenti agli ordini monastici e alle corporazioni, certamente antidemocratica – avversa alla tirannide economicista, al giogo progressista e alle sovversioni nichiliste – paradossalmente intrecciata a visionarie suggestioni moderniste, a certi sopralluoghi immaginifici. Difatti prendono forma qui spiazzanti esotismi orientali. Pensiero cinese, filtrato dalla traduzione in giapponese, pertinenze confuciane e dipinti bucolici. Il Canto XLIX, uno dei primi se non il primo a introdurre gli ideogrammi nel funambolico viaggio poundiano, sembra sospeso e quasi avulso dalle tematiche economiche e dai passaggi segreti del tempo, diretti al rinascimento, che lo circondano. Quello dei Sette laghi è davvero un canto a parte, oscuro e cristallino, tanto da suggerire da un lato interpretazioni esoteriche, eppure, nel verso opposto, architrave piazzata lì come un adagio delicato nell’imperscrutabile assetto generale, nel grande meccanismo del Poema.
Come riquadro in una cornice appesa nel cosmo, il Canto XLIX si fa frammento elegiaco, voce che parla come se piangesse rugiada, evanescenza di lamento, soavità sempre più lontana dal gergo corrente. Puro lirismo panteista, assenza umana ricamata con sfumature nostalgiche riguardo a un tempo prima del tempo (o fuori da esso), mette in scena già dall’incipit l’assenza del narratore, o meglio dell’opinione personale, dell’ego:
“Per i sette laghi, e di nessuno questi versi…”.
Metafora di viaggio silente – tipica capacità d’assemblaggio poundiana – che trova chiusa superlativa nel segno dell’ordine e nella pertinenza dionisiaca, sorta di paganesimo regolatore delle forze naturali:
“Il potere imperiale? Per noi cos’è?
La quarta dimensione: la quiete.
E il potere sulle belve”
Così, tornando coi piedi per terra e al cofanetto edito da Diabasis, feci una scoperta apparentemente irrilevante, proprio in occasione della stesura di questo pezzo. Mai aperta, la prima copia svelò al suo interno il vuoto, forse perché qualche mano lesta s’era portata via il contenuto, lasciando in esposizione solo la custodia. La seconda copia presa per errore, invece, conteneva tutto, ovvero il libro e le pregevoli riproduzioni dei disegni. Che morale trarne? Nessuna ovviamente, solo un piccolo segno, flebile voce che sussurra al fato quand’è il caso di fare un incontro. Propizio, nel tempo.