Non c’è lettore che non venga stregato dall’atmosfera tra il magico e il simbolico che la poesia sprigiona. Qual è il segreto di queste quattro ottave che nell’originale inglese presentano rime e consonanze? Certamente c’è la condizione esistenziale del poeta: infatti, come leggo nella pregevole introduzione di Roberto Mussapi, questa “è una poesia della maturità, quando ormai Yeats sente affievolirsi le forze e allontanarsi il tempo della piena energia della carne e dei sensi, e adombra, oltre la fine di questa vita, una nuova, eterna esistenza.” (in Verso Bisanzio, poesie scelte. ed. Feltrinelli). C’è poi, fondamentalmente, l’archetipo del viaggio, del ritorno ad una realtà storica e mitica insieme, che coincide con una rinascita spirituale. Bisanzio, per il poeta, è una città sacra, dove il divino e l’umano, grazie all’arte, si fondono e indicano una via oltre il breve raggio dell’esistenza; Bisanzio, quindi, rappresenta il mito dell’oro, dell’immortalità, cui ogni uomo anela inconsciamente.
Autorevoli interpreti hanno anche notato che i versi procedono per contrasti binari: ad esempio, Il “quello” con cui si apre la poesia allude ad una realtà non ben definita (l’Irlanda della sua giovinezza, vitale, erotica, passionale) e si contrappone all’”artificio dell’eternità” (la mitica Bisanzio); i giovani presi al laccio della loro sensualità che trascurano “monumenti di pensiero senza tempo” si oppongono ai vecchi, che sono, sì, “una piccola cosa, / un abito stracciato su una canna”, il cui destino è dissolversi, a meno che non tendano a qualcosa di trascendente, che li porti oltre la loro finitudine (che è poi l’individuo); il sensuale allo spirituale; il divenire all’essere.
Ma Yeats, nella sua poesia, eleva entrambi i termini dell’opposizione senza risolvere il dilemma. C’è sempre qualcosa di non definitivo, di non risolto nella poesia, c’è sempre un significato più pieno e ricco da ricercare, specialmente nella grande poesia. Al poeta irlandese, scrive il poeta e critico Giuseppe Conte, “riesce il miracolo d’essere popolare e aristocratico, chiaro e misterioso, moderno e classico” (in La poesia è una fiaba, il Giornale, 2/01/2006).
E ci avverte anche che la fortuna di Yeats in Italia fu “lenta, difficile, e controversa” (la prima traduzione di quest’autore, che nel 1923 ebbe anche il premio Nobel per la letteratura, avvenne nel 1949, dieci anni dopo la sua morte), fino almeno agli ’70, soprattutto per la diffidenza preconcetta dei nostri intellettuali, che probabilmente gli rimproveravano di aver mantenuto “una posizione politica inclassificabile secondo le categorie correnti, non era stato né marxista né cattolico, e aveva interessi per la teosofia e l’esoterismo.”