La Petite Messe ha una dedica “Al buon Dio”. Rossini afferma di “esser nato per l’Opera buffa”: “solo un po’ di dottrina, un po’ di cuore, e tutto è fatto.” In questa dichiarazione è celato un enorme dolore. Quando il Maestro, la musica del quale a Vienna faceva fanatismo, fece visita a Beethoven, questi gli disse sprezzantemente che facesse “solo Barbiere”. Non aveva voluto interessarsi delle Tragedie che Rossini scrisse fra il 1812 e il 1822: alcune con un pathos drammatico quasi insostenibile. Né voleva sapere che già nel 1816 Gioacchino si metteva al pianoforte ed eseguiva alcune Sonate di Ludwig. Quanti altri in Italia le conoscevano e, soprattutto, ne comprendevano l’ineguagliabile altezza?
Nel 1810 Rossini aveva diciott’anni; e aveva incominciato a comporre a dodici. Fra il 1810 e il 1829 scrive trentasette Opere. Di queste, tredici sono comiche, tre di “mezzo carattere”; una, Le comte Ory, è una scettica Commedia in costume, e di costume, che fa caso a sé, ed è così elegante che forse solo il Falstaff le può esser accostato. Venti sono Opere tragiche. Rossini vi si dedica con un impegno formale ed espressivo assoluto; a onta del passaggio di brani da un’Opera all’altra, che era prassi diffusa sin da Bach e Händel. Vi è il Tancredi, che incantò Goethe e da lui venne definito “favola boschereccia”, con ciò genialmente ascritto all’ethos pittorico di Poussin. Vi è l’Otello, la prima Tragedia musicale della storia tratta da Shakespeare. V’è l’incanto tassesco dell’Armida, che rivaleggia con Gluck. V’è l’incanto ariostesco (dico, quanto a ethos) di Ricciardo e Zoraide. V’è la Tragedia biblica Mosè in Egitto che, divenuta un’Opera francese, fu il solo capolavoro non comico del Maestro restato in repertorio. V’è la Tragedia storica Maometto II, dedicata all’assedio dei turchi della veneziana Negroponte, che si termina con le luttuose “nozze di sangue”, le quali strapperebbero le lacrime anche alle pietre. V’è il romanticismo di Walter Scott de La donna del Lago. Vi sono due Tragedie classiche, l’Ermione e la Zelmira: la prima da Euripide e dall’Andromaque di Racine. V’è la colossale Semiramide, con la quale il Maestro chiude la carriera italiana. Di questo complesso, dieci vennero create per Napoli. Il soggiorno napoletano, dal 1815 al 1822, durante il quale egli scrisse venti delle sue Opere, fu la rivelazione di Rossini a se stesso, e durante il suo corso avvenne l’ incomparabile crescita artistica e culturale.
Non voglio certo sottovalutare la creazione comica del genio. Il barbiere di Siviglia, che travolse l’epoca sua, si innalza dalla categoria del Comico alla spietata osservazione psicologica dell’uomo e della società. In ciò si affianca a Mozart. “Mozart e Rossini!”, proclama fortemente Schopenhauer. Alla sottigliezza psicologica si affianca un ethos dionisiaco, che con la forza del ritmo trascina la vicenda, e noi con lei, in un’ebrezza e in un’affermazione dell’assurdo che sono il trionfo dell’antipsicologia, e quella “follia organizzata e completa” della quale scrive Stendhal.
E si giunge al “silenzio”. Carattere sommamente aristocratico, ne spiega ironicamente la causa. Ma la prima delle vere cause è la terribile depressione che in un giovane di trentasei anni scoppia per aver egli logorato oltre ogni misura umana psiche e fisico in uno sforzo creativo concentrato in un tempo ristretto. E la seconda non è stata ancora capita. Rossini parla di una “filosofica mia determinazione”. Era troppo intelligente, troppo colto, troppo artista. I suoi ideali erano Bach, Haydn, Mozart, Beethoven. Sentiva di continuo il loro confronto. Sapeva che, per quanto alto fosse il suo genio, non li avrebbe raggiunti. Persino dopo il Guglielmo Tell, ove di continuo si respira Beethoven. Piuttosto che comporre qualcosa che, al solo suo giudizio, sarebbe suonato mediocre, preferì tacere per sempre. E tacere anche su questo. Ma una volta disse: “Mozart è stato la gioia della mia fanciullezza, la disperazione della mia maturità, la consolazione della mia vecchiaia.” In Francia, l’abbonamento numero 1 dell’edizione delle Opere Complete di Bach era di Rossini.
*Da Il Fatto Quotidiano