Queste carenze “strutturali” si riverberano sugli “umori” interni, soprattutto su chi ha un’idea partecipata di politica. Non parliamo – perché è preistoria – dei “partiti di milizia”, carichi di passione e di volontà “inclusive”, ma di quel minimo di articolazione organizzativa che non può limitarsi agli organigrammi o agli “eletti” e che non può vedere esaurito il compito delle classi dirigenti nella pura e semplice conservazione degli apparati e delle strutture esistenti, ma deve farsi strumento di confronto creativo e di partecipazione politica.
Il discorso vale per ieri e vale per oggi. Pensiamo a cos’ era la Dc, con le sue “anime” in lotta tra di loro, al Pci, che si inventò il “centralismo democratico”, al Psi, da sempre diviso tra riformisti e massimalisti, al Msi, nel quale lo scontro tra le diverse “linee politiche” era fortissimo.
E pensiamo, nell’oggi, all’esperienza statunitense, dove i due maggiori partiti, il Democratico ed il Repubblicano, si reggono il primo su una rete di sindacati, di associazioni per i diritti civili e per la tutela ambientale, ed il secondo sulle organizzazioni cristiano-evangeliche e su vari movimenti d’opinione (da quelli a difesa del diritto a portare armi agli antitasse, dai gruppi antibortisti al radicalismo libertario).
A legare, ieri come oggi, queste diverse realtà associative e culturali la volontà di concorrere ad un “progetto”, di contribuire a costruire un programma e dare voce ad opinioni diffuse. Al fondo un’idea della politica di lunga durata, che sa misurarsi sul territorio, fa opinione, sa muoversi tra la gente e soprattutto non vive solo di luce riflessa sull’immagine del leader di riferimento.
Quanto di tutto questo c’è ancora nel PdL ? Nei risultati delle ultime elezioni amministrative c’è la risposta. Risposta disarmante per un partito che – alla prova dei fatti – sembra esistere solo nell’immaginazione dei suoi capi e di qualche gregario.