Tatti Sanguineti vuole scandagliare, sezionare, mettere ordine. Srotola quindi una biografia e punta il faro sugli aneddoti. L’aneddotica è fondamentale per completare un punto di vista. Un aneddoto nasconde dettagli, tasselli del puzzle. Ed una biografia, soprattutto questa biografia, ha negli aneddoti la sua linfa preziosa. Apprendiamo, ad esempio, che Una vita difficile è un film di Sonego e non di Risi, che si limitò a filmare le sequenze indicate dal grande sceneggiatore, intrigato e totalmente coinvolto in un film del tutto autobiografico. Un libro utile che l’appassionato di cinema non deve perdere, per capire quanto l’Italia della commedia debba a un geniaccio come Rodolfo Sonego (1921 – 2000), una figura considerata imprescindibile dallo stesso Sordi, comandante partigiano “controvoglia” (come era solito dire), artista con la passione per la biologia e velleità da pittore, amante del racconto orale che si ritrova catapultato nella Roma del dopoguerra nel tentativo di rifarsi una vita, partire da zero, fare tabula rasa, cercare nuovo combustibile creativo.
Tatti Sanguineti ha raccontato Il cervello di Alberto Sordi (2015, Adelphi), servendosi di un titolo doppio, perché si entra nel cervello di Sordi (come fosse una scatola o un palcoscenico), in cui si ritrovano svariate testimonianze su e di Rodolfo Sonego, come se lo sceneggiatore veneto fosse incaricato – da un tacito accordo- di “abitarlo”, dando vita così ad un sodalizio durato 46 anni in cui fu soggettista, sceneggiatore e consigliere scelto da Sordi. Sanguineti non è nuovo all’opera di Sonego, aveva già pubblicato in precedenza Il cinema secondo Sonego (Transeuropa, 2000), che per l’occasione amplia e rende definitivo, inserendo vita, opere, dichiarazioni, aneddoti e commenti critici su film importanti come Il vedovo, Il boom, L’avaro, Assolto per non aver commesso il fatto, La donna del fiume, In viaggio con papà, Un eroe dei nostri tempi, senza dimenticare pellicole meno note come Ida e i porci, Il disco volante, Io e Caterina, Marechiaro. Ci sono anche i film non realizzati e i non accreditati, così come non manca un breve manuale di sceneggiatura, fai da te, pronto per l’uso, da chi non ha frequentato scuole ma ha incarnato semplicemente l’arte del racconto. Ne nasce dunque un lungo racconto antropologico, la cui decostruzione mostra alla radice frammenti di puzzle destrutturabili di quella grande industria che fu quella del cinema italiano, culturale anche quando proponeva “cultura di massa” perché in costante sintonia con quello che Edgar Morin, parafrasando Hegel, chiamerebbe “Lo spirito del tempo”.