Calcio. Se il vitalismo di Ronaldo è una pagina (mancante) dell’Aleph di Borges

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Per un attimo si è fermato tutto. Tutto sospeso in due metri e trentasette centimetri, come Cristiano, impegnato a restituire al calcio il suo vitalismo più profondo. Con il tacchetto inzaccherato nel calamaio, Cristiano, protagonista così plateale eppure intimo, connesso ad ognuno di noi e ad un popolo intero che abbandona ogni colore per abbracciare un gesto collettivo, scrive l’ultima pagina dell’Aleph di Borges. La rovesciata di Ronaldo è un inno alla vita, uno slancio che parte da terra per andare oltre. Per assurdo, Cristiano è l’unico a non vederne la traiettoria, codificando un linguaggio che non parla, raccontando, colpendo, vivendo una trama di cui tutti conoscono il finale tranne lui. Che, grato, può solo giungere le mani. Quella rovesciata accudisce un dente dello zahir e uno scalino verso l’aleph, una necessità ed una identità collettive che si realizzano in un gesto solitario di chi ritorna dalla Città degli immortali ed è un po’ Teseo, un po’ Minotauro, un po’ ospite, un po’ autore. Se il salto è l’inizio, è l’inizio della fine: in quella rovesciata ci sono tutte le risposte che cerchiamo. E’ immediata, concreta, materiale e a tratti cruda, ma è immagine, anche, che rimanda ad un mondo più profondo: “nei linguaggi umani non c’è proposizione che non implichi l’universo intero”, ci dice La scrittura di Dio. Borges, e Cristiano, l’hanno capito bene: “la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali” (L’immortale). Ciò che è davvero difficile è celebrare la vita.

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Francesco Petrocelli

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