Editoriale (di M.Tarchi). Le piazze colorate e politicamente corrette, una ferita alla concezione popolare della politica

La rivoluzione arancione in Ucraina
La rivoluzione arancione in Ucraina

Ci siamo abituati. O, per meglio dire, ci abbiamo convissuto per la nostra intera esistenza, dato che fra pochi mesi la prevedibile valanga di rievocazioni del Sessantotto ci ricorderà che la sua apoteosi ha già compiuto cinquant’anni. Ne conosciamo fin dai tempi dei banchi di scuola l’antenata nobile, quell’agorà in cui si raccoglieva il demos per discutere problemi ed assumere decisioni di interesse collettivo a beneficio della polis. Oggi poi ne abbiamo anche la versione telematica, successiva a quelle televisive, che ce la porta quotidianamente in casa. L’abbiamo vista celebrare da tribuni della politica e intellettuali come sano contraltare ai Palazzi del potere e agli intrighi che lì si annidano. Insomma, la piazza – intesa come location per eccellenza di ogni genere di manifestazioni, arena ideale per l’espressione più o meno ribollente di umori, opinioni, proteste e rivendicazioni – fa parte ormai del nostro ambiente naturale. E non ci stupiscono più le immagini che ce la mostrano ricolma di gruppi o folle che vi si radunano per sostenere le cause più disparate: oggi la voglia di separarsi da uno Stato giudicato oppressore, domani l’attaccamento a quello Stato, considerato da altri protettore; un giorno l’aspirazione a proteggere le frontiere e il proprio habitat dalle ondate di immigranti “invasori”, un altro l’intenzione di annullare ogni confine e spalancare porte e braccia a quegli stessi stranieri, promossi al rango di “fratelli” per ragioni ideologiche o di fede. Lasciamo che un’ondata di occupazioni di qualche porzione di suolo pubblico si attenui, esaurendo il suo corredo di slogan, urla, manifesti, cori, striscioni e altre trovate coreografiche, e aspettiamo la successiva. Di rado però, per non dire mai, ci interroghiamo sui significati e sulle conseguenze che questo ricorso costante e a tratti quasi ossessivo allo “scendere in piazza” comporta rispetto alle dinamiche politiche e sociali che caratterizzano la nostra epoca. E invece dovremmo farlo, per capire quanto questo fenomeno abbia inciso, e continui ad incidere, su alcuni dei cambiamenti epocali della politica e del costume che stiamo vivendo.

In un’epoca lontana, come abbiamo accennato richiamando l’Atene classica, la piazza ha tenuto a battesimo la democrazia, nel suo significato etimologico più fedele di concretizzazione del potere popolare, ed ancor prima di disvelamento della stessa esistenza di quel popolo, sottratto al rischio di apparire pura finzione e di sgretolarsi in un pulviscolo di soggettività individuali proprio in virtù del fatto di potersi convocare e riconoscere in un medesimo luogo. Sebbene ristretta al novero di coloro a cui si concedeva la condizione di “uomini liberi”, la prassi decisionale dell’agorà serviva a rafforzare il senso di appartenenza a una comunità, a offrire il modo per far sentire pareri diversi e a discutere proposte e soluzioni in origine discordi, ponendole a confronto con il dichiarato e ineludibile proposito di riannodarle, ricucirne le parti utilizzabili, armonizzarle e giungere a scelte che avrebbero dovuto compattare l’insieme, indicare la rotta da seguire a ciascuno dei suoi componenti e dunque fare di molte voci una voce sola. Quella del popolo, appunto. Quella che in tal modo si affermava era, si può dire con Carl Schmitt, la logica del plebiscito – l’unica che si addiceva all’espressione diretta della volontà unificante di una collettività, che aveva come sola alternativa il disordine e il caos di un conflitto intestino.

La riedizione della democrazia sotto ben diverse spoglie, o quantomeno la riesumazione di quella parola sotto l’egida dell’ideologia liberale, ha attribuito all’impiego politico della piazza tutt’altro significato. Fin dai moti del 1848, le riunioni in strada hanno assunto il carattere di rivelatori delle fratture che percorrevano le società. Non ci si radunava più per concordare decisioni al servizio del bene comune, ma per contestare quelle che il teorico interprete e gestore di quel bene, lo Stato, aveva assunto e la cui legittimità si intendeva, in quel modo, negare. Era già allora chiaro che, se nella democrazia degli antichi la piazza era assurta ad istituzione politica per eccellenza, in quella dei moderni era destinata a trasformarsi in contraltare, e spesso ad autentica antagonista, delle istituzioni. E tale sarebbe rimasta anche dopo l’affermarsi delle idealità liberali, perché, lungi dall’esaurirsi, il ruolo che aveva svolto in quella fase si sarebbe rafforzato, a tal punto da farne – come, del resto, era già accaduto con gli eventi francesi dal 1789 in poi – il teatro designato delle rivoluzioni (o dei tentativi, spesso infruttuosi, di suscitarle e portarle a compimento).

La funzione ribellistica, e talora eversiva, della piazza non si è, da allora, mai estinta, assumendo anzi una portata geografica planetaria: non è possibile contare quante volte in quei larghi spazi si sono consumati eventi capaci di varcare le soglie della cronaca e farsi storia di un gran numero di paesi.

Un po’ alla volta, però, alle classiche contrapposizioni tra i governi e i loro detrattori si sono affiancate, nello scenario di cui ci stiamo occupando, altri tipi di manifestazioni. Non più rivolte a dimostrare l’esistenza di potenziali maggioranze trascurate o negate dai detentori del potere e ad affermare le loro ragioni per contribuire a ribaltare i rapporti di forze esistenti, ma intese a portare alla luce e a far prevalere le aspirazioni di minoranze, consapevoli di essere tali ma decise a far trionfare i propri specifici interessi, presentati come inalienabili diritti, facendone oggetto di nuove norme, in taluni casi in aperto conflitto con le opinioni e la volontà della maggioranze del momento – non solo quelle espresse dalla dialettica politica, ma anche quelle presenti nella società. La cosiddetta “stagione dei diritti civili” esemplifica perfettamente quella svolta.

Da quel momento in poi, gli usi della piazza si sono fatti molteplici e variegati, e sempre più spesso sono serviti da cassa di risonanza per rivendicazioni particolari e settoriali, con l’intento di utilizzare il palcoscenico delle manifestazioni per guadagnare adepti alla propria causa e operare una pressione su quanti hanno il potere di assumere decisioni politiche (che, per loro natura, hanno valore erga omnes e, in democrazia, dovrebbero riflettere le opinioni della maggioranza dei cittadini). Se quindi abbiamo continuato ad assistere a dimostrazioni e prove di forza di tipo più classico, che puntano a dare agli spettatori l’impressione di una prevalenza numerica nei confronti dei sostenitori di convinzioni opposte – si pensi alle immagini delle folle massicce che hanno sfilato di recente nelle vie di Barcellona pro o contro la tentazione indipendentista per contendersi il ruolo di portavoce del “vero” popolo catalano, agli scontri tra fautori e avversari delle “rivoluzioni colorate” dell’Est Europa e a tante vicende analoghe –, è innegabile la crescita delle mobilitazioni volte a promuovere istanze di minoranze che hanno puntato sulla forza dell’immagine, straordinaria nell’epoca dell’homo videns in cui oggi viviamo, per animare spettacoli suggestivi e talora sconcertanti a sostegno dei propri obiettivi: le sfilate del Gay pride e le molte altre manifestazioni del fronte omosessuale costituiscono l’esempio più noto, ma tutt’altro che unico, di questa casistica.

È il caso di notare che questa evoluzione ha già, di per sé, arrecato un vulnus alla prassi ordinaria delle democrazie liberali, basate sul principio di rappresentanza e imperniate sul circuito che collega le elezioni ai parlamenti e fonda la legittimità delle decisioni politiche sul prevalere, in sede parlamentare, della volontà della maggioranza scaturita dalle urne. L’attivazione costante di un circuito alternativo, quello delle manifestazioni di piazza, pone in diretta discussione il diritto-dovere degli eletti di assumere decisioni in nome degli elettori che hanno loro conferito il mandato rappresentativo e li espone a pressioni estranee a quel rapporto. Il contrasto tra la “maggioranza silenziosa” espressa dal vto e le “minoranze rumorose” che si affidano alla mobilitazione di strada si fa, in questo caso, evidente e plastico, a tutto discapito della retorica della sacralità del suffragio popolare, su cui pure le poliarchie poggiano gran parte delle loro pretese di superiorità etica rispetto ai regimi autoritari.

La questione, tuttavia, non si ferma qui. Perché da alcuni decenni a questa parte l’agitazione di piazza ha assunto le vesti di un’azione censoria, applicata da minoranze ideologiche contraddistinte da un’intensa capacità di mobilitazione nei confronti delle opinioni a loro sgradite. La propria voce viene fatta sentire, in questi casi, per cercare di soffocare le voci altrui, anche e soprattutto quando queste ultime si fanno portatrici di istanze diffuse nella popolazione – e quasi sempre molto più presenti nella società di quelle sostenute dai loro avversari. Si veda quanto è accaduto negli ultimi anni quando una formazione politica populista  ha conseguito significative affermazioni elettorali, come nei casi recenti dell’AfD, della Fpö, del Front national: ogni volta l’estrema sinistra ha immediatamente organizzato raduni e cortei all’insegna di slogan diffamatori e minacciosi, ha circondato le sedi dei “nemici”, ha invocato la loro messa fuorilegge, e così facendo ha messo in discussione il diritto di scelta dei loro elettori. Da luogo di libero confronto e ricerca di armonia, quella che un tempo era l’agorà si è tramutata – seguendo sul registro della farsa lo spartito inaugurato in forma di tragedia dall’età del Terrore giacobino – nella tomba della libertà di opinione.

Tramite questo modo di agire, si è inflitta al concetto di popolo, già indebolito dall’apologia liberale dell’individualismo, un’altra profonda ferita. E non è un caso che, mentre le manifestazioni di piazza si andavano infittendo, si sia fatto molto raramente ricorso a quegli strumenti di autentica espressione della volontà collettiva che sono i referendum. Pressoché ogni volta che sono stati messi in condizione di dire la loro su questioni essenziali attraverso queste vie, i cittadini hanno smentito le scelte fatte dai loro governanti ed espresso la propria ripulsa dei dogmi della political correctness recitati sulle piazze e custoditi dalla casta intellettuale. Si sono, insomma, dimostrati capaci di farsi popolo e di difendere le proprie ragioni, le proprie esigenze, le proprie tradizioni.

Per evitare che ciò si ripeta, l’establishment fedele all’ideologia dominante ha intensificato la sua collaudata strategia a tenaglia: saldare l’azione disgregatrice del ceto politico che le è soggetto alla agitazione “dal basso” delle minoranze rumorose spalleggiate dall’effetto amplificante dei media mainstream. In questo modo, la voce della piazza si trasforma in un mero megafono della volontà di un’oligarchia, sempre più tentata dalla voglia di annichilire ogni forma di dissenso.

Il dissenso non può essere solo virtuale

Se chi intende opporsi a questo disegno si limiterà a contrastarlo in privato, magari rinchiudendosi fra le pareti virtuali di quel simulacro di arena politica da videogame che sono i social media, la partita sarà persa, e con essa si dissiperà la speranza di veder restituita ai popoli la capacità di decidere il proprio destino.

@barbadilloit

Marco Tarchi

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